ilNapolista

Napoli ricorda Mennea il campione col fuoco dentro

Al Tennis Napoli l’incontro con la moglie e due componenti della staffetta che vinse le Universiadi. Le sfide del giovane Mennea a Barletta alle Porsche e alle Alfa Romeo

Napoli ricorda Mennea il campione col fuoco dentro
Pietro Mennea

La freccia del Sud

La definizione di Pietro Mennea che più me lo riporta vicino, quattro anni dopo la morte che lo ha ghermito quando aveva sessanta anni, è tratta dall’officina di Vulcano: aveva il fuoco dentro. È uno slogan insieme dolce e capace di esprimere tutta la rabbia che il campione covava dentro. E esplodeva nel giorno della gara. Gli avversari lo sapevano, ma non riuscivano ad opporsi e incassavano la sconfitta senza stracciarsi le veste.

Quel ragazzo pugliese, a sua insaputa, aveva bucato l’audience e in seguito scriverà con il pennino Cavallotti una delle più belle pagine dello sport mondiale. Per dirne una, Valery Borzov, il campionissimo sovietico costruito in laboratorio a differenza di Pietro tirato su solo con le orecchiette e le cime di rapa della mamma, scoppiò a piangere quando apprese della morte dell’amico e ancora oggi, quando un ragazzotto di tredici quattordici anni vuole tenere a bada un rivale che se la tira gli dice: ma che ti credi di correre come Menna? Che non conosce neanche in fotografia.

Non si arrendeva mai

Il mito si nutre così. Ne abbiamo avuto una riprova al Circolo del Tennis Napoli dove il Panathlon ha ricordato il campione alla presenza della moglie Manuela Olivieri e di due dei tre moschettieri – Lazzer e Grazioli – che con lui e Caravani formarono la staffetta 4×100 che a Città del Messico stabilirono, con uno strabiliante 38”42, il record d’Europa. Pietro, gracile e tutt’altro che statuario nel fisico, insomma, era nato per correre e ha scalato il mondo ponendosi, all’indomani di ogni record, un obiettivo ancora più prestigioso.

Perché, come scrisse Gianni Merlo firma storica della Gazzetta dello Sport che è stato il suo cantore ufficiale, solo lui, uomo del profondo sud, nato a Barletta e senza santi in paradiso – il padre era un bravo sarto e la madre una taciturna casalinga – aveva “il fuoco dentro” e ha accettato di sottoporsi a durissimi sacrifici per avere la possibilità di sfidare i mostri americani e di entrare nell’Olimpo della velocità come Livio Berruti.

L’incontro di ieri a Napoli con la moglie di Mennea Manuela Olivieri

Sempre in punta di piedi

Sempre in punta di piedi per paura di dare fastidio agli altri: quando superò il limite di Tommie Jet Smith, il suo idolo, disse alla moglie Manuela «sono l’uomo più felice del mondo». Ma non il più appagato e, infatti, il giorno dopo, riprese ad allenarsi. Con la stessa determinazione. I miti, cioè, non nascono a caso e quello della “freccia del Sud” è impastato di fatica e di sudore. Di rinunce e di principi morali che per nessuna ragione al mondo avrebbe tradito.

Anche “freccia del sud” non è solo una etichetta appiccicata sulla schiena di Pietro insieme al numero di gara, ma è stata pensata per fotografare un’altra virtù di questo ragazzo acqua e sapone che ha vinto per se stesso, per la sua famiglia, ma, come sempre ha ammesso, per scuotere l’apatia meridionale e ricordare a Roma che senza il Sud l’Italia non va da nessuna parte. Come i fatti, trenta anni dopo, stanno dimostrando.

Mennea con Marcello Fiasconaro

Quando sfidò Porsche e Alfa Romeo

Che lui fosse una “freccia” ad ogni buon conto lo si capì molto presto quando aveva appena compiuto quindici anni e l’atletica era ancora in sala d’attesa. Successe che si permise di sfidare su un percorso di 500 metri definito con il gesso, una Porsche e un’Alfa Romeo 1750. Una volata di mezzo chilometro sul vialone che da Barletta porta a Trani – sì, quello immortalato da Renzo Arbore: Barlett, Barlett tra Trani e Molfett – e Pietro, che non aveva certo le gambe poderose di Carl Lewis o di Joe Smith, vinse alla grande, intascò la posta della scommessa, cinquecento lirette, e andò al ristorante a festeggiare con gli amici.

L’oro olimpico del 1980 a Mosca e i record che ancora resistono al tempo perché segnano un limite che solo pochi umani possono raggiungere, nacquero allora, su quel vialone: la tenacia invece della classe, la voglia di essere primo per dimostrare a se stesso che nessun traguardo è vietato. È il messaggio che la sua Fondazione, creata con la moglie, si sforza di trasmettere al mondo dei giovani. Senza di lui è più dura, ma c’è un traguardo da raggiungere e Pietro ha insegnato che bisogna arrivare prima.

Lui ho ha fatto anche nelle altre professioni, oltre quella di campione, nelle quali si è cimentato: avvocato con un portafoglio di quattro lauree, parlamentare europeo, professore universitario e perfino direttore generale della Salernitana calcio. Un ciclone, ma anche questo era scritto: per la prima laurea, quella in Scienze Politiche, a convincerlo fu un conterraneo famoso quanto lui: Aldo Moro. Gli disse: vai che ce la fai. Andò proprio così e fu il primo record.

ilnapolista © riproduzione riservata