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De Laurentiis non è più diverso da Napoli, i risultati sono sotto gli occhi di tutti

C’era una volta l’Aurelio corpo estraneo. Il pappone. Oggi è un notabile della città. Napoli lo ha ingoiato e risputato a sua immagine e somiglianza

De Laurentiis non è più diverso da Napoli, i risultati sono sotto gli occhi di tutti
Italian businessman Aurelio De Laurentiis arrives for the screening of the film "Freaks Out" presented in competition on September 8, 2021 during the 78th Venice Film Festival at Venice Lido. (Photo by Marco BERTORELLO / AFP)

(Riproponiamo l’editoriale su De Laurentiis di Massimiliano Gallo pubblicato oggi dal Corriere del Mezzogiorno

Tutto ha un inizio e tutto ha una fine. È la legge del mondo. E Aurelio De Laurentiis non ne è esente. Il suo comportamento degli ultimi mesi pone con prepotenza un tema inimmaginabile fino a poco fa: è cominciato il suo declino? Tutto procede in questa direzione. E non è affatto un caso che la crisi del Napoli corrisponda alla fine della sua diversità rispetto alla città. La napoletanità – dovremmo dire napoletaneria – lo ha avvolto e lo ha stravolto. Napoli lo ha ingoiato e risputato a sua immagine e somiglianza. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il Napoli è diventato napoletano. De Laurentiis è stato per quasi vent’anni un imprenditore profondamente avversato da queste parti. Pappone, romano, gli hanno detto di tutto. Poi, dalla sera alla mattina la città lo ha proclamato imperatore. Il tempo di una fotografia, quella con gli ultras che lo contestavano anche a scudetto di fatto acquisito. E lui ci ha creduto per davvero. L’imprenditore ha lasciato il posto al notabile. Uno di quelli che La Capria ha magnificamente dipinto come avventori del bar Middleton in «Ferito a morte». Uno di Napoli.

La vittoria dello scudetto ha trasfigurato De Laurentiis, lo ha reso irriconoscibile. Abituato o rassegnato a essere detestato se non odiato, il signor Aurelio è rimasto inebriato dai fumi della vanità. Di solito alla sua età si perde la testa per una donna, come il professor Unrat de «L’angelo azzurro». La Marlene Dietrich di De Laurentiis è stato il successo. Copertine. Interviste. Tappeti rossi. In Italia e all’estero. New York Times. Financial Times. Le Monde. Bild. Quanta tristezza quell’immagine del presidente che cammina tronfio a Dimaro, a petto in fuori, e raccoglie il pieno di ovazioni. Da pappone a immortale. L’adulazione e l’adulazione collettiva andrebbero inserite nel codice penale. Sono reati.

De Laurentiis ha finito col credere davvero di avere il tocco magico. Di essere dotato di poteri taumaturgici. La realtà, invece, stava raccontando tutt’altro. E cioè che l’uomo dal fiuto pressoché infallibile non aveva subodorato che il suo allenatore stava per mollarlo. Mollarlo ad ogni costo, anche due milioni di euro. Era certo, De Laurentiis, di riuscire a convincere Spalletti a rimanere. Una superficialità non da lui. È stato il primo, inascoltato, campanello d’allarme. De Laurentiis soffre maledettamente gli abbandoni. Non se ne fa una ragione. Odia chi lo lascia, almeno nel breve periodo. È successo così con tutti. A maggio ha subito due duri colpi: Spalletti e Giuntoli. Ha reagito negando la realtà. «Questa squadra può allenarla chiunque». «La figura del direttore sportivo non è così centrale». Immaginiamo che nessuno, al suo fianco, abbia avuto l’ardire di fargli aprire gli occhi. Avere a che fare con l’uomo non ci sembra l’attività più semplice su questa terra. Non lo ha riportato alla realtà nemmeno la lunga sfilza di no incassati dagli aspiranti allenatori. Anzi. Ha finito col teorizzare che la famiglia De Laurentiis, da sola, aveva tutto per essere competitiva con le grandi aziende.

Questo Napoli stagione 23-24 non ha alcuna visione calcistico-aziendale. Lo scorso anno il progetto c’era: sostituire gli anziani con calciatori giovani e vogliosi. Poi è andata di lusso, forse al di là delle previsioni, ma il Napoli aveva seguito un’idea, un business plan per dirla alla Benitez. Questo Napoli, invece, è figlio della convinzione che bastava non cambiare niente (tranne Kim andato al Bayern) per continuare a vincere. Non solo Garcia è stata la quarta, quinta scelta, ma De Laurentiis non sapeva neanche che l’allenatore francese non aveva alcuna intenzione (secondo noi giustamente) di proseguire pedissequamente il lavoro di Spalletti. Non ha risolto la grana contrattuale di Osimhen. Né tantomeno quella di Kvaratskhelia.

Il resto è storia dei giorni nostri. Il Napoli ha cominciato a imbarcare acqua. E non c’è più una parvenza di struttura societaria per tamponare la falla. Ormai ne capita una al giorno. Che siano i calciatori che mandano a quel Paese l’allenatore. O il social Tik Tok che fa tristemente parlare del club in tutto il mondo con la poco lusinghiera accusa di razzismo. Il presidente che delegittima pubblicamente Garcia mentre è tutto pronto per il colpo di coda cinematografico, finalmente: l’arrivo di Antonio Conte. Sembra l’ora del rinsavimento. Sembra.

Nel giorno in cui la Fiorentina si mette al centro del calcio italiano con l’inaugurazione del Viola Park, il Napoli torna a due anni fa quando De Laurentiis — dopo la sconfitta per 3-2 a Empoli — cominciò la vigilanza a Castel Volturno. Come se il suo sguardo avesse proprietà miracolose. Il business model di Commisso versus il Borgorosso model di casa nostra. Questo è lo stato delle cose. E ora che tutto va male, i tifosi non lo criticano. Anzi. È diventato uno di loro. E, ahinoi, i risultati si vedono.

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