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Il Napoli è una sorpresa solo per chi non ha voluto vedere gli ultimi tre anni

La narrazione dei media nazionali è fedele all’idea che hanno della città. Gli ultimi tre anni del Napoli sono stati profondamente distorti

Il Napoli è una sorpresa solo per chi non ha voluto vedere gli ultimi tre anni

È divertente osservare l’approccio sorpreso con cui i media stanno trattando il Napoli dominatore in campionato e in Champions. Hanno lo stesso atteggiamento dell’entomologo di fronte a una nuova specie di insetto. O, se volete, quello dei giornalisti politici che per vent’anni il giorno dopo le elezioni si sono ritrovati a dover commentare un Paese di cui non avevano capito nulla.

Ecco quest’ultimo esempio è più calzante. E in questi giorni non abbiamo letto neanche un corsivetto di dieci righe sobriamente titolato: “Scusate, non ci avevamo capito un cazzo”.

Protagonisti della comunicazione politica italiana – faccio i nomi di Andrea Camorrino e Claudio Velardi – sostengono da anni (in buona compagnia) che uno dei profondi mali italiani è il sistema informativo. Che sistematicamente distorce la realtà, la piega a una narrazione per loro più comoda e procede poi spedita come un treno che, direbbe De Gregori, non fa più fermate neanche per pisciare. 

Il Calcio Napoli e la grottesca sopravvalutazione dei calciatori andati via, ne sono un fulgido esempio. Napoli per il sistema mediatico nazionale è una pazziella. “Ci vogliamo divertire? Chiamiamo un napoletano a fare ammuina”. Nel 2022 ogni riferimento alla piazza di Napoli è quasi sempre improntato al folclore, alla conferma della tesi che da queste parti ci svegliamo al suono della tarantella, balliamo per strada nonostante i nostri figli vadano a scuola senza acqua corrente. “Perché non ce l’avete l’acqua a Napoli, giusto?”

I personaggi mediatici preferiti – in particolar modo calcistici – sono spesso quelli che accreditano questa idea. “Gente allegra, il ciel l’aiuta”. Più reciti la parte del guitto, meglio è. Visione peraltro cui si presta la complicità di napoletani più o meno illustri spiaggiati sul claim “Napoli è la città più bella del mondo, luntan’a Napule nun se po’ sta’”.

In questa cornice il racconto del Calcio Napoli si è pigramente adagiato sulla dominante narrazione cittadina. Di strada e dei salotti: da queste parti sono ben salde, come La Capria ha perfettamente spiegato ne “L’armonia perduta”. E questa narrazione identificava in De Laurentiis il nemico assoluto e in quei senatori l’anima della vera Napoli.

La distorsione del racconto Napoli esplode circa tre anni fa, all’epoca dell’ammutinamento. Quando venne considerato uno scambio alla pari l’avvicendamento Ancelotti-Gattuso (che è un po’ come disdire l’abbonamento al Nyt per farlo al Napolista). Un passaggio che ha fatto perdere tre anni al club e che invece – assecondando il fiume dell’ignoranza partenopea – è stato mediaticamente metabolizzato in trenta minuti. Non ci fu alcuna analisi sull’indebolimento strutturale, sul gravissimo passo indietro e soprattutto sulle motivazioni che condussero a quella rottura. Carlo Ancelotti è stato l’unico – tre anni e mezzo fa – a dire chiaro e tondo a De Laurentiis che senza una bonifica dello spogliatoio, non sarebbe andato da nessuna parte. All’epoca De Laurentiis era Sor Tentenna, non aveva visto ancora il baratro economico con i propri occhi. Ci hanno pensato due mancate qualificazioni Champions di fila a destarlo dal torpore.

Nel frattempo nella sua azienda spadroneggiavano i protagonisti dell’ammutinamento. Che la passarono liscia tranne qualche multarella. Forti del consenso popolare, ripresero il controllo della squadra. E lo hanno tenuto ben saldo, nonostante fosse evidente che all’indiscussa supremazia nello spogliatoio non corrispondesse più un’altrettanto indiscutibile gerarchia di valori in campo.

Ma poiché il fiume narrativo era perfetto per le orecchie dei media nazionali – Ciro, Ciro Romeo, Insigne figlio di Napoli e altre sciocchezze del genere – il treno proseguiva spedito. Calciatori certamente forti ma che evidentemente non avevano più granché da dire. Talvolta per questioni di età, altre (vedi Koulibaly) per fisiologici stimoli. È dura rimanere a vita in una stessa azienda e mantenere lo stesso livello di attenzione sul lavoro. Quel Napoli – come abbiamo scritto in questi giorni – era stato completamente fagocitato dal filone stereotipato della napoletanità.

Negli ultimi tre anni, la squadra è arrivata settima, quinta, e poi terza (grazie a Spalletti). Ha sempre fallito tutti i momenti clou. Sempre. In tutto il ciclo di questi calciatori. Eppure mai nessuno ha osato alzare il ditino: scusate, ma non è che per caso il problema sono proprio quelli che consideriamo intoccabili? Come peraltro sosteneva quell’anziano signore trasferitosi a Madrid. Fatta eccezione per Spalletti che ad aprile rispose per le rime all’intoccabile Mertens, mai nessuno osava dire quel che era evidente a chiunque avesse occhi per guardare.

Ne è seguita l’estate che conosciamo. Nessuno, nessuno, che si fosse chiesto: andiamo a vedere che sta facendo il Napoli. Magari ci sorprende. Chi sono questi nuovi calciatori? Niente di tutto questo. Una delle più straordinarie campagne acquisti degli ultimi trent’anni presa a pernacchie in stereofonia. La narrazione è andata a traino del popolino dell’A16 (cit. Giuntoli) spalleggiati da buona parte della presunta intellighenzia partenopea che detesta De Laurentiis. Kvaratskhelia – uno che un anno e mezzo fa valeva già 30 milioni – è subito diventato Kvaraquello, il georgiano. Non parliamo del sudcoreano, del norvegese. Oggi il giornalismo è spesso accomodante. Anche per motivi di tranquillità. Una volta – secoli fa – i lettori scrivevano lettere o al massimo qualcuno più energico si presentava alla porta della redazione; oggi, con i social, te li trovi attaccati alla grondaia che ti insultano e gridano cose oscene e raccapriccianti. Quindi comprendiamo. Così come possiamo concedere il momento di debolezza di Spalletti dopo i pareggi contro Lecce e Fiorentina e quella frase “volete il disegnino di chi è arrivato e chi è andato via?”

Ma al fondo la sorpresa di oggi è figlia della superficialità di ieri, della scelta di comodo di adeguarsi al corso populistico e di proseguire col tirare a campare. Nella realtà, a Napoli negli ultimi tre anni sono accadute cose importanti che hanno acceso più di una spia d’allarme. I fatti erano abbastanza chiari. In tanti hanno scelto di non vederli. Scelta legittima. Ma che non giustifica il tono di sorpresa che scorgiamo. Questo Napoli tutto è tranne che una sorpresa. È figlio di scelte sacrosante e arrivate con tre anni di ritardo. Un esempio di perfetta gestione d’impresa applicata al calcio. Perché sì, anche senz’acqua, a Napoli si può fare ottima impresa.

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