Erlic: «Sono nato in una stalla in una famiglia di contadini. Ogni estate torno a dare una mano nei campi»
Il difensore dello Spezia a Sportweek: «Non sono il tipo che vede lavorare il suo vecchio e se ne va in spiaggia a prendere il sole».

Su Sportweek un’intervista al difensore dello Spezia, Martin Erlic. Ha 24 anni, una decina di giorni fa ha esordito nella Nazionale del suo Paese, la Croazia. Racconta la sua infanzia.
«Sono del ’98. La guerra nella ex Jugoslavia era finita, restavano solo macerie. L’abitazione dei miei era stata distrutta da una bomba, così si erano sistemati nella stalla dove tenevano gli animali. Lì sono nato io, in mezzo alle galline e ai maiali. Ci siamo rimasti per due o tre anni, prima che, mattone dopo mattone, papà ricostruisse la nostra casa. Vengo da una famiglia di contadini. Non so come faccia mio padre ad alzarsi ancora oggi alle 4 del mattino per andare a lavorare la terra, e rientrare al tramonto. Lui è l’esempio più grande che io possa sperare di avere. Ogni anno, quando finisce il campionato torno nel mio paesino Tinj dove vivono 500 persone in tutto, e aiuto i miei nei campi della loro azienda agricola. Non mi vergogno di quello che faccio. Non sono il tipo che vede lavorare il suo vecchio e se ne va in spiaggia a prendere il sole. So quanti sacrifici ha fatto per darmi qualche soldo per comprarmi le scarpe da calcio, quando ho iniziato a giocare. Non voglio nascondermi dietro a una maschera che non mi appartiene».
Grazie ai suoi guadagni, l’azienda di famiglia si è allargata: ora ci sono anche i vigneti e gli uliveti e gli Erlic hanno il prosciutto.
«Qualcosa vendiamo, il resto è per noi: ho due fratelli, due sorelle e nove nipoti. I miei non potrebbero fare una vita diversa da quella che hanno sempre fatto. Lo so io e lo sanno loro. Io posso solo aiutarli a viverla meglio rispetto a quando ero piccolo e mio padre arrivava a fine mese senza un soldo in tasca, nonostante si fosse spaccato la schiena tutti i giorni. Andavo a scuola e non aveva 50 centesimi da darmi per comprarmi un bombolone. Ma erano tempi difficili, c’erano miseria e rovina dappertutto. Il mio primo ricordo da bambino? Me stesso a piedi scalzi. Per qualche anno non ricordo di aver avuto un paio di scarpe. Mia nonna viveva a cinquanta metri da noi: ancora oggi mi racconta che nel breve tragitto da casa sua alla nostra, cadevo dieci volte. Sarà stato perché correvo sempre, o forse perché ero a piedi nudi. Correvo, cadevo, mi rialzavo. Ero felice con poco. Non cambierei la mia infanzia con nessun’altra».
La sua non è stata un’infanzia facile.
«Non mi piace giudicare gli altri o dire se mi sento diverso dai miei colleghi. So che ho dei valori: apprezzo il mio mestiere perché so che fare il calciatore è un privilegio. Apprezzo le persone che lavorano per noi nel club, ho massimo rispetto per tutti, a cominciare dai magazzinieri e dalle signore delle pulizie. Ai compagni che a volte neanche li salutano, dico: stai sbagliando. Se qui stai bene e non ti manca nulla è grazie a loro. Io penso che, come tratti gli altri alla stessa maniera tratti le persone della tua famiglia. Poi, apprezzo il valore dei soldi: ecco perché li metto da parte. In Italia faccio la vita del calciatore, esco, ho una bella macchina, ma non mi sono montato la testa, rimango coi piedi per terra. Mio padre mi ha insegnato a essere umile. È una lezione che non dimentico».