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Tennis, mai una gioia. E’ diventato lo sport della depressione: vincere ormai è solo un conforto

Anche il New York Times si chiede quale sia il problema di questo sport in cui non esiste secondo posto: “Sono tutti intollerabilmente scontenti”

Tennis, mai una gioia. E’ diventato lo sport della depressione: vincere ormai è solo un conforto
archivio Image / Sport / Tennis / Naomi Osaka / foto Imago/Image Sport

La solitudine dei numeri primi, ma pure dei secondi e dei terzi. Soprattutto di quelli. Che primi non sono in uno sport, il tennis, che – parola di Djokovic, numero primissimo – non ammette altro che vincitori. All’estero da mesi la stampa sportiva s’incaponisce a dibattere di Naomi Osaka, della depressione, della irrisolvibile congiuntura campione/infelicità. E’ d’altra parte la migliore tennista al mondo, o giù di lì, la più ricca, modello di un sacco di cose, forse troppe. S’è arresa, dice. A 23 anni. In Italia va da sé che la stessa storia, per quanto enorme, trovi risalto solo per la laterale questione dell’utilizzo dei social, parecchio più spendibile evidentemente sul mercato della superficialità.

Il New York Times – ma è solo un esempio maiuscolo – sono settimane che si dedica al tema. E in un bel pezzo firmato da Matthew Futterman si chiede:

cosa c’è in questo sport che rende così tanti dei migliori giocatori del mondo, una collezione di atleti apparentemente avvolti in ricchezza, fama e gloria, così intollerabilmente scontenti?

Perché è così, e basta dare un’occhiata anche distratta agli US Open ora in onda. C’è una struggente elettricità che domina i sentimenti dei giocatori, sempre più esposti alle proprie emozioni, e sempre più incapaci di tenerle a freno. Il tennis, per citare ancora il Nyt, è “diventato un viaggio binario senza gioia tra sollievo dopo le vittorie e tristezza dopo le sconfitte. Non c’è appagamento, né felicità”.

Il tennis ha una storia decennale di ragazzi interrotti, menti spezzate, rese incondizionate. Non peraltro uno dei più grandi giocatori di sempre, Bjorn Borg, perse la sua quarta finale degli US Open nel 1981, uscì dal campo entrò in macchina e non tornò mai più. Chi ha letto Open di Agassi sa di cosa parliamo perché la corrosione dello spirito è diventata letteratura bestseller.

La novità sta nell’esternazione, nella trasposizione al pubblico del proprio tremore. Faceva giustamente notare Jürgen Schmieder sulla Sueddeutsche Zeitung che il più gelido di tutti, Federer, si scioglie(va) in torrenti di lacrime a fine torneo. Ma essendo lui uomo o forse qualcosa d’altro, qualcosa in più, allora ne traeva beneficio reputazionale: visto, mostra le sue emozioni, è umano pure lui. Lo fa Osaka e diventa “mocciosa viziata”, “piagnona”, “egocentrica infantile”. Andrebbe invece considerata un “modello” – anche – per tutti coloro che sono infelici e non hanno il coraggio di parlare.

Siamo per l’appunto alla modellizzazione della fragilità. E’ una forzatura, ma il processo di svellimento della retorica dei superuomini se la porta appresso. E’ una consapevole estensione della stessa difficoltà: loro, i tennisti che si spogliano davanti a tutti delle loro ansie, e  noi che li osserviamo un po’ delusi, un po’ empatici.

Non c’è bisogno d’una specializzazione in psicologia sportiva per apprezzare lo sfinimento mentale dei tennisti professionisti, giovani o vecchi che siano. Anzi, dei giovani di più. Vincono e sbuffano, come se l’avessero scansata bella. Perdono ed è un drammone. Domina la ricerca del sollievo. Non è mai vera soddisfazione, è più che altro uno sfogo adrenalinico: s’apre la volvola, puffffffff, andiamo avanti.

La solitudine e l’intensità del tennis è altrettanto nota. Crescono come robot, e da “pro” si ritrovano catapultati in una realtà senza confini, fusi orari e oceani, vissuta per 11 mesi l’anno. Giocano al mattino, o la sera tardi, dormono e mangiano e si allenano di conseguenza. E soprattutto – citiamo ancora il New York Times – “i tennisti parlano della sconfitta in modo diverso. Il giocatore che non vince il torneo non arriva mai secondo, e i semifinalisti non sono mai terzi o quarti“. Chi non vince ha perso e basta. “I golfisti professionisti che arrivano ​​quarti spesso affermano di aver trascorso una settimana fantastica. Maratoneti e nuotatori si godono il podio”.

Fresco di sconfitta agli ottavi degli US Open, l’idolo di casa Frances Tiafoe, è andato in conferenza stampa e ha dettato una dichiarazione d’amore per questa tortura che chiamano tennis, che moltissimi si sono appuntati come contrappasso mentale del tennista depresso.

“Ho quasi pianto uscendo dal campo, ero super-emozionato. Il calore della gente è più grande del tennis stesso. Puoi vincere una partita. O perdere una partita. Ma è questa la cosa (lui dice “sheet”, ma vabbé, ndr) che importa. La cosa per la quale mi alzo ogni mattina e per cui vado pazzo. Faccio tutto questo perché un bambino se ne ricorderà. I genitori pagano i loro soldi sudati per mettere i bambini su quelle sedie a guardarmi”.

Questo è un peso che molti malsopportano, alcuni ne sono devastati. La psicologa di cui sopra dice che “i giocatori possono sopravvivere a carriere inevitabilmente piene di sconfitte e delusioni solo lavorando ogni giorno per costruire un’autostima e una fiducia in se stessi che non si misurano con vittorie e classifiche e punti ma piuttosto in relazioni. Solo allora possono trovare un modo per godersi il viaggio, per quanto snervante possa essere”.

Oppure magari, puoi essere Federer, Nadal o Djokovic.

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