Il suo Napoli ha salvato un club in autodistruzione controllata. Al momento di infilare a bilancio i milioni della Champions, l’assemblea dei soci gli tributerà gli onori che merita
Napoli-Verona al contrario si legge Juve in Champions. Un versetto satanico. Un mefistofelico filo che si contorce attorno ai destini del Napoli e della squadra che più odiano i napoletani, di sponda sull’altra, il Verona, teso da un allenatore che i più provvisti di immaginazione addirittura danno per papabile erede di Pirlo. Quando invece, nella realtà, a Gattuso toccherà un busto in bronzo, tutt’al più una sala dedicata alla Continassa: il Salone Gattuso. Un monumento all’allenatore ignoto, palesatosi sul più bello, nel gran finale a sorpresa. Tipo “I soliti sospetti”: mentre tutti ascoltavano Pirlo rastrellare i meriti d’una stagione chiusa con due trofei e una qualificazione Champions – ci mancava solo che ringraziasse la mamma, come agli Oscar – Rino Gattuso, semplicemente Rino, smetteva di zoppicare e s’avviava verso il suo nuovo destino col doppio colpo in tasca: Napoli inguaiato, Juve salva. Il Keyser Söze bianconero.
Della fatal Verona è il danno collaterale quello più fastidioso: la riesumazione d’una Juve in stato di morte apparente da mesi. A dispetto dei complottisti aveva il destino segnato. Bastava dichiararne, all’ultima giornata, l’ora del decesso: dalla Superlega all’Europa League. Dall’upper class (o supposta tale) all’Europa cheap, scadente, non consona al blasone. Per poi ritrovarli invece, complice il Napoli – è come rimestare col sale grosso in una ferita fresca – in diretta tv che festeggiano la qualificazione ad una competizione che volevano rottamare. Sorridente, persino, Pirlo. Capirete lo straniamento.
A Gattuso – cui fino a due giorni fa il girone di ritorno e la stampa amica garantivano un appeal di mercato appena un filo inferiore a quello di Guardiola e Tuchel – la prossima Assemblea dei soci bianconeri tributerà gli onori del caso. Puntiamo sulla sobrietà piemontese: un lungo applauso, la standing ovation, un brindisino. Giusto il tempo di infilare a bilancio i milioni della Champions che De Laurentiis non guadagnerà.
Qui si procede per semplificazioni, sia chiaro: stiamo strumentalmente utilizzando Gattuso come sinonimo dello sconfittismo napoletano. Quell’incapacità di affondare al momento buono ritraendosi, come fanno i tennisti impauriti dalla vittoria. Il braccino, insomma. Una nemesi. Perché il contesto fa romanzo a sé, i particolari s’infliggono sulla storia ancor più dolorosi. Farsi sconfiggere – il pareggio, nel caso di specie, era una sconfitta – dal Verona, aiutando al contempo la Juve. Il bignami dell’incubo del tifoso napoletano.
Ancor più che inguaiare se stesso, ipotecando il prossimo biennio, il Napoli è riuscito nell’impresa di riabilitare la stagione di un club in autodistruzione controllata: il caso Suarez, l’eliminazione col Porto, il disfacimento egoriferito di Ronaldo, gli impacci di Pirlo, gli scandali di Paratici, il bubbone mortifero della Superlega. Ha mostrato il suo lato solidaristico, il Napoli, da crocerossina. Prima la Supercoppa, poi la Champions. Manca la mirra, a completare il quadro di genuflessione biblica. San Rino, nuovo patrono di Villar Perosa.
La chiusura del cerchio, a ribaltamento ulteriore del colpo di scena, sarebbe davvero Gattuso alla Juve al posto di Pirlo. A compimento ultimo – ancorché irrazionale – di una strategia senza capo né coda. Solo nel nome della riconoscenza. Più probabile che si limitino a celebrarne il valore intrinseco, eroico, a distanza. Un plauso al sacrificio, in contumacia. Che il milite resti ignoto, non sono mica scemi alla Juve.