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Il New York Times a Bergamo dove le pompe funebri non ce la fanno più

Il reportage del quotidiano ripreso da Dagospia. Un viaggio nella provincia falcidiata dal coronavirus. Le continue sirene dell’ambulanza

Il New York Times a Bergamo dove le pompe funebri non ce la fanno più

Il reportage del New York Times da Bergamo, ripreso da Dagospia.

Le strade di Bergamo sono vuote. Come in tutt’Italia, le persone possono lasciare le proprie case solo per comprare cibo e medicine, o per andare al lavoro. Fabbriche, negozi e scuole sono chiusi. Non si sente più chiacchierare agli angoli delle strade o ai tavolini dei caffè. Ciò che si sente di continuo, senza sosta, sono le sirene (…).

I nipoti salutano dalle terrazze, mariti e mogli si siedono agli angoli di letti ormai vuoti. E poi le sirene ricominciano a suonare, affievolendosi quando le ambulanze si allontanano, dirette verso ospedali stipati di malati di coronavirus. “Ormai a Bergamo si sentono solo le sirene”, ha osservato Michela Travelli.

Il 7 marzo, suo padre, Claudio Travelli, 60 anni, guidava un camioncino che consegnava generi alimentari in tutto il Nord Italia. Il giorno seguente, ha iniziato ad avere febbre e sintomi influenzali. Sua moglie aveva avuto la febbre nei giorni precedenti, quindi ha chiamato il medico di base, che le ha detto di prendere una tachipirina e di riposare. Per gran parte del mese precedente, la classe dirigente italiana aveva mandato messaggi contraddittori sul virus.

Il 19 febbraio, circa 40.000 persone di Bergamo, una provincia lombarda di più o meno un milione di persone, hanno percorso 50 chilometri per andare a Milano ad assistere alla partita di Champions League Atalanta – Valencia. (Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, la settimana scorsa ha definito la partita “un forte acceleratore del contagio”). Travelli e sua moglie allora non avevano preso sul serio il pericolo del contagio, ha raccontato la figlia della coppia, “perché non veniva presentato come una cosa grave”.

Ma a Travelli la febbre non si è abbassata e le sue condizioni si sono fatte più preoccupanti. Venerdì 13 marzo ha sentito una pressione insopportabile al petto e ha iniziato ad avere conati di vomito. La febbre era altissima e la sua famiglia ha chiamato un’ambulanza. I soccorritori hanno rilevato bassi livelli di ossigeno nel suo sangue ma, seguendo le raccomandazioni degli ospedali di Bergamo, gli hanno consigliato di stare a casa. “Hanno detto: ‘abbiamo visto di peggio e gli ospedali sono come le trincee in una guerra’”, ha riferito la signora Travelli.

Un altro giorno in casa ha portato a un’altra notte di attacchi di tosse e febbre. Domenica, Travelli si è svegliato in lacrime, dicendo “Sono malato, non ce la faccio più”, ha ricordato sua figlia. Ha preso un’altra tachipirina, ma la febbre è salita a più di 39 e la sua pelle ha assunto un colore giallastro.

Questa volta, quando è arrivata l’ambulanza, le sue due figlie, entrambe indossando guanti e mascherina, hanno preparato una borsa con due pigiami, una bottiglia d’acqua, un caricabatterie e un cellulare. I livelli di ossigeno nel sangue del padre erano crollati.

I volontari della Croce Rossa si sono chinati su di lui mentre stava steso sul letto, sotto a un dipinto della Vergine Maria. L’hanno portato in ambulanza. Le sue nipoti, di tre e sei anni, l’hanno salutato dalla terrazza. Lui ha alzato lo sguardo verso di loro, verso i balconi da cui sventolavano bandiere italiane. Poi l’ambulanza se ne è andata e non si è sentito più nulla. “Solo la polizia e le sirene”, ha detto sua figlia. I soccorritori che si erano occupati di Travelli avevano iniziato presto quella mattina.

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