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«19 febbraio, 40 mila bergamaschi a San Siro per Atalanta-Valencia. Una bomba biologica, purtroppo»

Il Corriere della Sera intervista il primario di pneumologia dell’ospedale di Bergamo: «Qui hanno trasformato un magazzino in un reparto. Non chieda a me come hanno fatto. I bergamaschi, gente tostissima e coraggiosa» 

«19 febbraio, 40 mila bergamaschi a San Siro per Atalanta-Valencia. Una bomba biologica, purtroppo»

Il Corriere della Sera intervista Fabiano Di Marco, primario di pneumologia dell’ospedale di Bergamo, il Papa Giovanni XXIII. E’ passato un mese da quando la città è stata sconvolta definitivamente dall’epidemia di Covid-19.

«A Bergamo ogni famiglia piangerà i suoi cari. Non sono io a dirlo, sono i numeri».

Il primario ricorda il 21 febbraio scorso, il giorno in cui cominciò tutto

«Come fosse ieri. Ma anche come fosse un’altra vita. Fino alle 12, un giorno normale. Poi mi chiama da Milano il professor Stefano Centanni, il mio maestro: guarda che a Lodi è un disastro. Così, inizio a parlare con i colleghi rianimatori. Sapevamo che le polmoniti da Covid-19 sarebbero toccate a noi. Alle 20 ricevo messaggi allarmati dalla direzione. Dobbiamo liberare infettivologia, per essere pronti ad accettare tutti i malati di Covid-19 della provincia. Eseguo. Prendiamo tutti gli altri pazienti e li mandiamo nelle chirurgie, che hanno posti liberi».

C’erano già molti ricoverati con febbre e anche un paziente che era entrato in contatto con il paziente 1 di Codogno.

«Domenica pomeriggio il reparto di infettivologia si riempie. Ma è solo tanta gente con tampone positivo».

Poi, il primo marzo, la situazione precipitò definitivamente.

«Al mattino presto entro al Pronto soccorso. Non dimenticherò mai. La guerra. Non trovo altra definizione. Pazienti ovunque con polmoniti gravi, che rantolavano. Sulle barelle, nei corridoi. Avevano aperto la sala maxi-afflusso, e anche quella era strapiena. Mentre l’italia voleva riaprire le sue città, in 24 ore abbiamo consumato 5.000 mascherine filtranti. C’era un panico generale. Quel giorno è cambiato qualcosa anche nelle nostre vite».

Due giorni dopo il primo morto. L’escalation ormai era irrefrenabile e la rianimazione piena. Le altre città hanno iniziato ad accogliere pazienti ma ben presto, a causa del moltiplicarsi dei casi, si è creato un ingorgo a cui trovare soluzione. Quella del Papa Giovanni è stata di utilizzare una parte dell’ospedale, fino a quel momento usata come magazzino, all’accoglienza dei Covid-19.

«Non chieda a me come hanno fatto. Alle 13 c’erano ancora i pallet e i pannelli abbandonati. Alle 19.20 ho portato giù il primo paziente da intubare. I bergamaschi, gente tostissima e coraggiosa».

La corsa a recuperare posti ma anche caschi respiratori.

«All’inizio ne avevamo 20. Abbiamo cominciato a cercare. Niente, finito tutto. Sabato 7 marzo mi ricordo che 15 anni fa avevo conosciuto il titolare di una piccola azienda familiare di Levate, che faceva impianti ad ossigeno. Gli telefono: siamo disperati».

E’ stato grazie a lui, racconta, che adesso l’ospedale è il più fornito d’Europa, con 139 caschi.

«Grazie a lui. Dice che fa solo quel che gli hanno insegnato i suoi genitori. Gente così».

Il giorno peggiore, per i decessi, è stato il 13 marzo. Il primario fa sua la tesi che tutto sia degenerato a partire dalla partita di San Siro, Atalanta-Valencia.

«Ne sento tante, dico la mia. Diciannove febbraio, 40 mila bergamaschi a San Siro per Atalanta-Valencia. In pullman, auto, treno. Una bomba biologica, purtroppo».

Oggi in ospedale si consumano 8.600 litri di ossigeno al minuto.

«All’inizio di questa settimana è venuto l’ingegnere. Ragazzi l’impianto a ossigeno non ce la fa. È progettato per consumare massimo 8.000 litri al minuto. Voi con le terapie intensive ne fate fuori 8.600. Al minuto, ripeto. Lavorando di notte hanno costruito un altro silos che ci fa arrivare a 10.000 litri».

E poi ci sono i contagi tra il personale medico.

«Siamo a 400 su 1.600».

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