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Sempre più professori in pensione anticipata: “La nostra competenza è inutile”

Un dossier amaro, quello che Marco Imarisio dedica oggi alla scuola italiana e agli insegnanti, sul Corriere della Sera. Sempre più spesso sono questi ultimi il lato debole del triangolo insegnante-alunno-genitori

Sempre più professori in pensione anticipata: “La nostra competenza è inutile”

Sono sempre più i professori che abbandonano l’incarico, sentendosi inadeguati, inascoltati, privi di autorità nei confronti di alunni e famiglie. Sentendosi inutili, al punto da preferire la pensione anticipata.

Come Paolo Galli da Varese, insegnante in un liceo milanese.

“Sinceramente, non riesco più a capire. Ho frequentato corsi di orientamento formativo che dovevano introdurmi alla “filosofia del merito” e ho un dirigente scolastico, proveniente da un istituto tecnico, che a ogni riunione si raccomanda di bocciare il meno possibile. Ho letto documenti di indirizzo che rappresentavano la scuola come “open space di idee e luogo stimolante di pulsioni lavorative”, e mi sono perso. Non ho mai guardato nessuno dall’alto in basso, non ho mai voluto essere autoritario. E forse ho sbagliato. Perché ormai sotto ci siamo noi, trattati come camerieri maldestri che rovinano l’eterno pranzo di gala dei ragazzi prodigio e delle loro famiglie. Magari è davvero colpa mia. Quindi, addio”.

Sono tanti gli insegnanti che abbandonano. Tra le 46,099 domande presentate fino a inizio giugno tra i dipendenti pubblici per accedere a “quota 100”, quelle che provengono dal comparto scuola sono 32.100, di cui 18.700 da parte di docenti.

E’ il calcolo fatto dall’Inps ma è sovrapponibile alla stima dei sindacati, secondo cui sono fino a 25.000 le uscite annuali dovute alla formula 62+38, alle quali bisogna aggiungere altri quindicimila pensionamenti con requisiti ordinari.

“A metà dell’anno in corso, le richieste di lasciare la cattedra sono già 8.000 in più del 2018-2019, un dato che secondo le associazioni di categoria a settembre lascerebbe scoperti 120-140 mila posti, azzerando di fatto le 110 mila stabilizzazioni dei precari fatte dalla Buona Scuola”.

Si dice tanto e da tutte le parti che deve pensarci la scuola, scrive Imarisio. Che la scuola deva prevenire e curare qualsiasi problema riguardi gli adolescenti, dalle baby gang al bullismo, dalla lotta alla droga all’educazione civica. Ma nessuno, poi, pensa alla scuola.

“La scuola è scomparsa anche dai radar della politica. Dopo un biennio di discussioni spesso aspre sulla Buona Scuola, il nuovo governo l’ha messa in secondo piano, oscurata da altre priorità, che si chiamino immigrazione o reddito di cittadinanza. Quando c’è da tagliare, quattro miliardi negli ultimi cinque anni secondo i sindacati, meglio il silenzio”.

E’ per questo che i numeri altissimi degli abbandoni tra i docenti passano inosservati, nonostante diano un’esatta dimensione della “spirale di disamore e frustrazione” che almeno da vent’anni avvolge gli insegnanti.

I docenti sono sempre più spesso il lato debole del triangolo insegnante-alunno-genitori. Il professor Dario Gasparo, che insegna matematica, chimica e fisica in una scuola media di Trieste (l’anno scorso era tra i cinque professori italiani presenti al Global Teacher Prize di Dubai) si è visto tornare indietro una nota scritta sul diario di un alunno che aveva “sparpagliato le sue feci sul gabinetto”, con la firma del genitore accompagnata da un appunto: “Mio figlio mi ha raccontato una cosa diversa. Dovremo chiarire”.

“Con gli anni realizzi che le tue competenze non servono. E hai sempre meno tempo a disposizione. Mentre parli, dopo dieci secondi ti accorgi che qualche alunno distoglie lo sguardo. Gli effetti dei cellulari, della connessione perpetua. Ma tanto non importa. Perché ormai il lavoro è mirato sulle nostre paure. La prima cosa è evitare i ricorsi, stare attenti al pericolo della culpa in vigilando. E così perdiamo ogni giorno di più la nostra ragion d’essere”.

Nella classifica quinquennale pubblicata lo scorso dicembre del Global Teacher Status Index che valuta la reputazione sociale degli insegnanti in 35 Paesi, l’Italia è ultima in Europa.

Come siamo potuti cadere così in basso?

Prova a spiegarlo Adolfo Scotto Di Luzio, docente di storia della pedagogia e delle istituzioni culturali all’Università di Bergamo, oggi uno dei massimi studiosi della scuola italiana.

“Tutte le leggi e le direttive approvate negli ultimi anni vanno in direzione di una scuola di formazione, conforme alle esigenze del lavoro. Storia, filosofia, letteratura, persino la matematica, non contano più. Tutto quello che i docenti sanno, non vale nulla. La loro perdita di ruolo e di prestigio comincia con questa impostazione condivisa da ogni forza politica. Tutte le riforme che si sono susseguite negli anni portano a questo modello di scuola che potremmo definire confindustriale, e sono sempre state concepite in modo ossessivo contro gli insegnanti, considerati portatori di un sapere vecchio e inutile, non aggiornati, e additati come ultimi depositari di privilegi ingiustificati”.

L’istruzione, in questo modo, viene lasciata alle risorse dei singoli: una famiglia abbiente del Sud manda il figlio a studiare a Milano, una famiglia milanese lo manda a Londra.

“Vince chi ha la possibilità di comprare una scuola migliore. La politica ha deciso di non affrontare la questione, riempiendosi la bocca solo di tecnologie in classe, lasciando fare al mercato”.

E gli insegnanti?

“Gli insegnanti italiani hanno interiorizzato questa tendenza al ribasso”.

Racconta che da docente nelle scuole di specializzazione gli capita spesso di trovarsi di fronte ad aspiranti professori che “studiano sui riassunti, su Google, come i loro studenti”.

Agli insegnanti non viene chiesto un parere, un punto di vista, scrive Imarisio. Si scoprirebbe che in realtà vorrebbero solo semplicità:

“Non un ritorno al passato, quanto piuttosto il recupero dei fondamentali, principio di autorità, assunzione di responsabilità da parte dell’allievo e delle famiglie, come unica via per ridare dignità e visibilità a chi nella scuola ci lavora”.

E così Paolo Galli, da cui era partito Imarisio, se ne va senza rimpianti, anzi, con un certo sollievo.

“La considerazione della quale gode la scuola è data dalla carenza di materie prime. Carta, carta igienica, fotocopiatrici vecchie di anni, computer che sembrano il Commodore 64. Ho sempre pensato di fare il lavoro più importante del mondo, ma forse mi sbagliavo anche su questo. Peccato, perché resto ancora convinto che la scuola anticipi quel che saremo, quel che diventerà la nostra società. Non è vero che gli insegnanti sono inutili come le mosche. Sarebbe bello che qualcuno prima o poi dicesse con chiarezza cosa fare ai colleghi che restano, senza caricarli di circolari astratte che grondano sociologia d’accatto”.

 

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