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Keith Flint ha suonato la musica di chi ha il coraggio di battere i rigori

“Breathe” è un trattato sulle pulsazioni che fanno tremare i polsi nei momenti decisivi. C’è chi gioca e chi attenderà per sempre, ma lamentandosi (sui social)

Keith Flint ha suonato la musica di chi ha il coraggio di battere i rigori

Breathe

Quando ascoltai per la prima volta Breathe dei The Prodigy fui rapito, come ogni bravo ed ignaro adolescente, dal travolgente ritmo ipnotico; ma, come avviene per ogni opera d’arte che si rispetti, non ne compresi significato e portata. L’arte cammina per sentieri totalmente diversi da quelli battuti da noi comuni mortali, a volte – e solo a volte – capita che getti un barlume di luce sulla nostra vita. Ho dovuto attendere i miei quarant’anni per iniziare a capire di cosa realmente parlasse quel pezzo, un inno alla pressione intensa, cupa, insistente, che genera eserciti di malati psicosomatici, di uomini e donne che inalano ed esalano. Di prigionieri.

Keith Flint, che quella pressione micidiale decise non solo di cantarla ma addirittura di ballarla e scagliarla con tutta la violenza possibile a moltitudini di tutte le latitudini, non ha retto l’onda d’urto ed è spirato qualche ora fa. Ma The Fat of the Land – un album che ha nel titolo la sua prospettiva, quello della ricchezza di cui c’è dannato bisogno nella vita di tutti non solo per accontentarsi di sopravvivere ma addirittura per tentare di vivere sulla cresta di quella onda di pressione che si chiama esistenza – è un trattato sulle pulsazioni che fanno tremare i polsi nei momenti decisivi.

C’è chi decide di giocare e  

I rigori sbagliati, i pali colpiti, le occasioni mancate andrebbero vissute con questa musica nelle orecchie. Non è più neppure una questione di vigliaccheria quella che si cela dietro la violenta dozzinalità che popola i commenti di quelli che condannano senza appello gli errori di gioco. O degli arbitri. O gli errori nella vita. Facce della stessa medaglia. Sul campo parlano tutti i più imbarazzanti inesperti per vivisezionare e condannare il gesto dell’attaccante o la parola del quarto uomo, nella vita si torna a pretendere la galera per la “modica quantità” – che espressione straordinaria, l’italiano è ancora la lingua dei mille compromessi storici.

Come play my game, I’ll test ya. Questo è il motto, alla fine, di quelli che commisero il peccato di chiamarsi prodigio – che è poi lo stesso peccato di cui si macchia ogni calciatore che si assume la responsabilità della apparente felicità di milioni di persone. C’è chi decide di giocare e chi attenderà per sempre, ma lamentandosi. C’è chi cade nella lotta e chi cerca, con fatica, di trovare il giusto equilibrio necessario a buttare quella palla dentro e magari non morirne se essa decidesse di finire sulla traversa. C’è chi canta e chi balla. Poi ci sono i falliti, i più violenti. Quelli che si accontentano di non frequentare né persone né campi ma solo i termini (o i partiti) giusti. Quelli che barattano un “game” con un “social”. Forse, tutto sommato, Allegri non ha avuto una cattiva pensata a tirarsene fuori.

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