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Mourinho, un mito che non ha saputo rinnovarsi

Il declino del tecnico portoghese è coinciso con la sua mancanza di aggiornamento tattico: il gioco dello Special One è rimasto fermo a dieci anni fa.

Mourinho, un mito che non ha saputo rinnovarsi

Aggiornamento tattico

José Mourinho è al terzo esonero della sua carriera. Questo è il più doloroso, per un motivo molto semplice: rispetto alla fine della sua doppia avventura al Chelsea, il manager portoghese non può vantare un grande successo alla guida del Manchester United. Manca la Premier, manca la Champions. L’Europa League del 2017 è sicuramente un successo importante, ma ha una dimensione troppo ridotta rispetto alle premesse di un incastro suggestivo, potenzialmente epico, lo Special One sulla panchina che fu di Sir Alex Ferguson. Quindi, in uno dei ruoli più ambiti nel mondo del calcio.

Mourinho non ha compiuto la sua missione, al massimo ci è riuscito solo parzialmente. Il suo Manchester United non è mai stato una squadra davvero vincente, superato in questa corsa prima dal Chelsea di Conte e poi dal Manchester City di Guardiola. Al di là della qualità dell’organico, di certo inferiore a quello di alcune avversarie, i Red Devils non hanno mai dato l’impressione di avere una un sistema di gioco efficace negli ultimi tre anni.

E allora è qui che sta la grande colpa di Mourinho: si è seduto sul suo mito di motivatore, di lavoratore delle e sulle menti dei giocatori, tralasciando l’aggiornamento tattico. Nei primi cinque posti della classifica di Premier ci sono squadre con un’idea di calcio proattivo, che non vuol dire offensivo ma quantomeno cerca di determinare il contesto: il pressing asfissiante di Klopp, il gioco di posizione di Guardiola e Sarri, la verticalità di Emery, il possesso sofisticato di Pochettino. A tutte queste idee, Mourinho ha finito per rispondere sempre con gli stessi concetti: gioco di rimessa, se non addirittura speculativo rispetto al primato fisico dei suoi calciatori. Non è bastato, evidentemente.

Un innovatore

Mourinho è stato un innovatore. A suo modo, senza impattare sulla storia evolutiva del gioco, piuttosto ha puntato tutto su allenamenti avveniristici per i primi anni Duemila. Ne L’Alieno Mourinho, scritto da Sandro Modeo, c’è il racconto di quel mondo nuovo costruito tra Benfica, Porto, Chelsea e Inter. Sul campo, lo Special One si è praticamente fermato lì – perché il mito mediatico di Mourinho è in disfacimento ma ancora ha dei sussulti, basta pensare alla mano sull’orecchio allo Juventus Stadium, non più tardi di un mese fa -, all’Inter difensiva con quattro attaccanti in campo, Eto’O esterno di centrocampo e Sneijder dietro Milito, una squadra di enorme personalità ed estremamente grintosa e fiera, l’estensione sul campo del pensiero di Mourinho.

Anche il Real Madrid 2010-2013 fu una squadra interessante, anche dal punto di vista tattico. Solo che nel frattempo si è affermato un altro modo di giocare a calcio, più sistemico, più irganizzato, meno frammentato tra attacco e difesa. Mourinho combatte da quindici anni la stessa battaglia, con lo stesso codice paramilitare, con le stesse armi strategiche e mentali. Ha finito per auto-disintegrarsi dietro un’ideologia di pragmatismo che non conosce alternative.

Basti pensare ai primi tre mesi della scorsa stagione: partenza sprint, prime difficoltà di gioco e risposta di esasperazione, con il varo della difesa a tre per la prima volta in carriera. Il Manchester United ha finito la stagione con 28 gol subiti in Premier League, solo uno in più del City campione a 100 punti. Allora il secondo posto a 81 punti, una quota rispettabile, può diventare realtà. È una realtà accettabile, al netto della clamorosa eliminazione agli ottavi di Champions contro il Siviglia di Montella.

Ma se la nuova annata inizia nel solco della precedente, senza nuovi stimoli tattici (e anche senza un grande mercato, va detto), e il rendimento arretrato cola a picco (29 reti incassate nei 17 match giocati in Premier), vuol dire che qualcosa non funziona. Che anche la difesa, proprio la tua difesa, ha perso di efficacia. È come se avessi una laurea con il vecchio ordinamento non più accettata ad un concorso per un importante posto di lavoro. Sei fuori fuoco. Sei fuori tempo.

Il futuro

Il futuro di Mourinho non è facile da delineare. A 56 anni da compiere, è un allenatore-icona che non ha saputo rinnovare sé stesso. Che è rimasto imprigionato nel suo mito. La sua nuova avventura, se e quando ci sarà, dovrà per forza partire da presupposti diversi. A Napoli, in questi mesi, abbiamo accolto con il sopracciglio alzato (una metafora perfetta) un allenatore che in tanti credevano bollito – sicuramente non dal Napolista. E che invece ha saputo ricostruire la sua dimensione di tecnico-sul-campo grazie a un lavoro di aggiornamento del proprio software.

Ecco, allora José potrebbe ripartire con un progetto simile. Potrebbe in qualche modo “resuscitare” (per l’ennesima volta) con un’esperienza vicina a quella di Ancelotti. A patto, però, che decida di andare oltre un calcio ormai antico, vetusto e sorpassato. Il suo lavoro si esprime ancora sul rettangolo verde, perché è da lì che vengono fuori i risultati. Se non sa più coltivarli, tutto il resto della sua dialettica perde di valore, invecchia, scolora. Il tempo è un avversario impossibile da sconfiggere, ma quantomeno si può combattere, magari decidendo di staccarsi da sé, anche solo per qualche istante.

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