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Ettore Majorana e il mistero del calcio e della vittoria

Ettore Majorana e il mistero del calcio e della vittoria

Finestre chiuse. Odore pungente di sigaro Toscano.

La scaramanzia da un lato e il pragmatismo sabaudo dall’altro. Capisce, professore? Andrea Agnelli si prende la libertà di sfotterci. Di mazziarci. Con sprezzo. Rinuncia alla festa! Come se tutti noi, gli altri, fossimo non solo perdenti qualunque ma anche guardoni d’accatto”.

Il dottor Freud oggi è seduto, un’aria laconica. Per certi versi quasi triste.

“Non prendetela sul personale. Voi siete la terra in cui i festeggiamenti non accettano pianificazioni e sono feste eteree, antiche, velleitarie, salutano eventi che non accadranno mai, quasi come gli esorcismi; mentre loro, per materializzare il senso dei propri sforzi, creare simbolo e giustificazione della propria noiosa efficienza, devono attendere che l’evento svanisca, scarnifichi, si polverizzi. Troppo in anticipo voi e troppo in ritardo loro. Perché chi la tocca, la vittoria, muore”.

“E’ la loro incapacità di godere, Herr Freud, altro che sofismi. Guardi i ricordi, in questi ore, sui nostri giornali, sui social network, di quel dieci maggio di ventinove anni fa, e potrà capire il senso di una festa. Roba che quelli si sognano”.

Una timida lama di luce fa capolino alla finestra.

“L’attenzione di Andrea Agnelli non è fasulla – riprende il professore – Non è neanche banalmente sabauda, come dice lui per schermirsi. Appare funerea. Ma è necessaria, per chi non voglia tramutarsi in vittima della vittoria, la quale possiede una natura molteplice e feroce. E’ piena di indeterminatezza. Si è campioni davvero solo quando la competizione ha termine e si può rivestire una carica; eppure quando ci si cuce al petto l’ultimo punto di scudetto è già troppo tardi e l’Agnelli sta già pianificando il prossimo anno. La vittoria ha l’animo paradossale e transitorio. Chi è aduso a trionfare non ricorda più quante volte abbia davvero vinto, ma chi attende sospeso una vita intera il trionfo non trova sfogo migliore che scrivere sulla soglia di un cimitero: Che vi siete persi. Né il muro di una pizzeria né un pino del lungomare. Ma un cimitero. Perché c’è una vena di dissoluzione nella vittoria. Un senso di trapasso”.

Sospende il discorso, afferra un libercolo poggiato sulla scrivania tra pollice e indice e allunga il braccio per offrircelo.

“E’ una mirabile radiocronaca di Leonardo Sciascia, tra prosa fluida di Sandro Ciotti e vastità mistica di Meister Eckhart.”

La scomparsa di Majorana, professore?” sobbalziamo, dopo averne letto il titolo.

Freud annuisce sprofondando nella sua poltrona in un lungo sbuffo: “La scomparsa di Majorana” conferma. E riprende:

“Ettore Majorana fu un geniale fisico teorico, e fu un uomo del vostro sud, quello serio. Un siciliano cui venne concessa una cattedra di Fisica Teorica a Napoli ‘per chiara fama’, e che in città ci venne per trovare la solitudine cui aspirava – curioso, vero? Solitudine a Napoli- poiché:

come tutti i siciliani «buoni», come tutti i siciliani migliori, Majorana non era portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi (sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della «cosca»).

Sarebbe stato uno straordinario allenatore, il giovane Majorana. Il savoir-faire bellicoso e raffinato di Guardiola nel tumulto visionario di Bielsa. La certezza cristallina che sia impossibile godere di una vittoria senza soccomberle e assurdo aggiudicarsi una competizione potendo usufruire anche del tempo di festeggiarla. A tal punto si identificò con questo enigma di fondo da divenire un semidio, uno dei pochi uomini per cui possa dirsi che nacque e non morì mai. Scomparve. Improvvisamente. E non fu mai ritrovato”.

“Un nerd, strambo fisico teorico, peraltro scomparso. Ci pare il profilo perfetto per Giuntoli”.

“Non è detto. Il calcio è come la poesia e la scienza, sempre a un solo passo dalla follia. Per via della sua precocissima genialità, Majorana giocò tutto la vita a smarrirsi, a perdere e perdersi. Nei primi anni trenta, nonostante avesse già pensato e calcolato la famosa teoria che successivamente Heisenberg, altro celeberrimo fisico, avrebbe formalizzato e pubblicato dandole il proprio nome, rinunciò allo scudetto. Gettò via qualunque piazzamento Champions. Abdicò lucidamente al sicuro Nobel preferendo, per le sofisticate formule cui aveva dedicato una vita intera, il dorso dei pacchetti di sigarette sui quali scriveva in tram e che accartocciava e gettava immediatamente via per ragioni oscure ma vitali, ci dice Sciascia, per motivi mistici, incomprensibili, legati a quella che l’autore definisce una forma di superstitio, che è ben più della scaramanzia di Agnelli. È il senso di inviolabilità del trionfo. La consapevolezza che godere della vittoria sia sacrilego: Appena toccata, nell’opera, una compiutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto, appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero – nell’ordine della conoscenza o, per dirla approssimativamente, della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte – appena dopo è la morte. Il fare è per lui intriso di questa premonizione, di questa paura. Gioca col tempo, col suo tempo, coi suoi anni, in inganni e ritardi. Tenta di dilatare la misura, di spostare il confine. Tenta di sottrarsi all’opera, all’opera che conclusa conclude.

Majorana racchiude sia il vostro nevrotico desiderio da primo posto che il ridicolo tentativo di procrastinarlo di Andrea Agnelli. In un’unica persona”.

“E quale sarebbe la soluzione a questo tranello, Professore? Cosa avrebbe detto, in concreto, e di particolarmente geniale, il giovane Majorana ai propri calciatori? Di scendere in campo e perdere?”

“Il calcio è ben più misterioso della meccanica quantistica. La vittoria compare solo se noi scompariamo. Allora non rimane che tramutarsi in un murales ai Quartieri e svanire, in un gesto di generosità; o smarrire la nostra memoria e capire che chi ama dimentica, e non il contrario; o decidere, con senso dell’efficienza sabaudo, di ottenere uno scudetto senza dedicargli neppure un bicchiere di Barbaresco. Oppure c’è l’opzione Majorana. La sua opera più ingegnosa, la sua vera vittoria, per la quale lavorò più alacremente persino di quanto facesse per le sue formule, fu la propria scomparsa. Così precisamente architettata nei minimi particolari da rimanere, dopo decenni, intatta nella sua perfetta imperscrutabilità:

Una di quelle costruzioni leggere ed aeree che basta «un niente» a farle crollare, ma appunto si reggono perché quel «niente» è stato calcolato.

Sciascia descrive con questa frase la scomparsa di Majorana. Ironia della sorte, questa è anche la migliore definizione di vittoria”.

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