Io difendo Walter Gargano. E lo difendo da napoletano.
Anzitutto perché il valore più profondo di un napoletano è la disillusione. L’avere una spiegazione più ragionevole, e più rispettosa delle leggi del mondo, quando tutti gli altri sembrano inebriati dai fumi della favola. Per dirla con Cioran, il napoletano sa che il mondo, che gli uomini si ostinano a credere creazione di un dio buono, sia piuttosto l’esito di un dio contorto e spesso infelice. E qui due parole sulla retorica delle bandiere: il disilluso, il risvegliato, il napoletano, le bandiere le ha sempre ammainate, non le ha mai sventolate. Basta con l’apologia melensa della fedeltà. Con i simboli dei simboli dei simboli. La fedeltà è boriosa e fasulla almeno quanto la storia dell’Inghilterra che ci insegna valori e meritocrazia grazie al Leicester.
Per una città di mare, per un porto di anime, un ricettacolo di racconti, di desiderantes con gli occhi spalancati sull’orizzonte, il posto d’onore lo merita il mercenario. Chi sappia dedicarsi completamente a una causa che non sia assoluta, perché l’assoluto non esiste; e che non gli appartenga, perché cosa veramente ci appartiene?; chi conosca il tempo delle cose e lo centellini bene; chi sia consapevole di non essere indispensabile; chi abbia tuttavia l’abilità di farsi pagare l’oro necessario, anzi di più, per la propria impresa. Il futuro, come il passato, è dei mercenari. Poche bandiere, molti expendables, transeunti e sacrificabili. È un mondo serio, si può sbagliare solo da professionisti. E poi si svanisce. Gargano non ha mai adorato Napoli. Ed è stato pienamente corrisposto. Eppure due figli suoi sono nati all’ombra del Vesuvio. Forse non ci torneranno, pare. Nati per godere e dimenticare.
Difendo Gargano perché non conosco un napoletano amico del militarismo, dell’ordine imposto, della polizia dei sentimenti. Volevano rispettare il sacro rito del mate nello spogliatoio. Ma il tecnico toscano proibì. Come non capirli, i due sudamericani – Il sud del mondo fuma sigarette e beve birra con Socrates sulle panche di quei luoghi. E lo accetta non per misericordia, perché Napoli è spietata, una città che conosce a fondo la vendetta. Ma per pura accettazione della evidenza delle cose.
E, ancora, lo difendo per l’immagine strepitosa da lui dipinta di una società di professionisti che torna in bus accompagnata per la manina dal figlio del presidente, “che non sa fare altro e allora lo hanno inserito nel club”. Il calciatore ed il delfino sono quasi coetanei. Il secondo impone la visione di un film del padre alla ciurma, ex cathedra, un po’ Catone il Censore un po’ Ugo Fantozzi. Forse immagina che i cinepanettoni fortifichino gli animi. Viene spernacchiato. Napoletanamente. C’è del favoloso nel fatto che gli stessi tifosi che da un decennio non ne perdonano una al presidentissimo ora, dinanzi a questa primizia, si riscoprano poliziotti di quartiere e difensori della città – eh, cari Righeira, non vi saremo mai sufficientemente grati.
Difendo El Mota perché è un giocatore tutto sommato scarso, di poca geometria, di quasi nessuna idea, di non brillante intelligenza, ma sincero nell’applicazione. Col piglio. Ha giocato una stagione intera con la spada di Damocle dei cori dei babbei con i bastoni da selfie allo stadio, che credono di meritare di più fin già da quando sono in fasce, eppure lui ha fatto silenzio e sotto le piogge di fischi ha vestito una fascia da capitano – un capitano mercenario, come quelli coraggiosi. E nell’intervista dimostra di averlo capito – siamo un popolo spesso isterico, delirante tra il buio e la luce, incostante, che non crede neanche ai propri fischi. Ha poco sale in zucca, Gargano, ma quei pochi grani li ha fatti fruttare bene.
Infine, difendo Gargano perché un napoletano non è politicamente corretto. Non potrebbe mai esserlo. In questi giorni circolano in rete due minuti di uno straordinario John Cleese, mirabile componente degli indimenticabili Monty Python (proprio quelli che quell’altro innominato ebbe l’ardire di menzionare, ma questa è un’altra storia). Spiegano perché il politicamente corretto è spesso il passo che conduce allo scenario apocalittico del 1984 di Orwell, per scongiurare il quale dobbiamo imparare a gestire i nostri sentimenti negativi se non vogliamo finire con l’imporre agli altri i comportamenti che riteniamo arbitrariamente giusti. È il principio dell’assorbire e tollerare, è quanto ha reso Napoli controversa capitale storica di laicità e libertà. Sentirsi dire che siamo invadenti, che pretendiamo di essere sempre simpatici a tutti e in ogni momento col nostro dialetto (a proposito, Gargano nell’intervista parla un buon napoletano che, precisa, “è una lingua”) e sentirselo dire da un tamarro uruguagio, dà fastidio. Innervosisce. Ma è tutto sommato una critica sensata. E in quanto tale può affermarla chiunque.
Uè, Gargà, buona fortuna.
Non mi mancherai ma ti voglio bene.