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Quelli che affidano al calcio il compito di tenere alta l’etica dell’Italia

Quelli che affidano al calcio il compito di tenere alta l’etica dell’Italia

Nello scorcio finale di gennaio il calcio italiano (inteso nel senso ampio di “ambiente”: tifosi, opinionisti, social e alcuni – si badi bene, alcuni – protagonisti) ha delegato a Roberto Mancini il compito di moralizzare la serie A. Il trend è durato una decina di giorni, è partito dal “frocio, finocchio” di Sarri, è passato dal j’accuse in diretta tv del tecnico nerazzurro, è lievitato in campagne stampa animatissime, è filato piuttosto liscio sul “muto, zingaro di merda” di De Rossi a Mandzukic e si è esaurito, con ogni probabilità in via definitiva, col dito medio dello stesso Mancio ai tifosi del Milan. Il gestaccio chiarisce che il tecnico jesino non è il più accreditato per aggiornare i codici di buon comportamento del nostro mondo pallonaro.

Finito l’hype, ci sono due considerazioni da fare. La prima. Molti ragionamenti hanno ruotato intorno all’assunto che gli attori del calcio, per via della pubblicità della loro funzione, dovrebbero essere paladini di ogni buona causa e modello di ogni buona pratica. «Mantengano il contegno. I bambini prendono esempio da loro», si dice. Niente aggressioni verbali, tantomeno se politically incorrect, altrimenti non si può pretendere che i ragazzini siano invece civili. Quante volte l’avete letto? È una considerazione giusta in linea di massima. Ma è un argomento fallace quando serve a chiedere punizioni esemplari (nel senso letterale) per calciatori che trasgrediscono le regole della buona convivenza. Chi ha assegnato al pallone il compito di tenere alta l’etica del Paese, soprattutto quando il dibattito pubblico dello stesso Paese è orgogliosamente basso? Evito lungaggini sulla volgarità in politica e nella vita istituzionale, che, fino a prova contraria, sono tra le più nobili espressioni di una società. Ma faccio un appunto. Johan Huizinga nel 1919 ha scritto “L’Autunno del Medioevo”, studio (centrale e assai discusso) sul modo in cui la civiltà europea del basso medioevo rifletteva su se stessa. Tra il Tre e il Quattrocento, ad esempio, nasce il mito della cavalleria per come lo conosciamo oggi. Per farla breve (e mi perdonino i medievisti per la sommarietà della citazione) sull’etica di un’istituzione che è stata per secoli la spina dorsale del sistema feudale, si sono cominciate a sprecare pagine proprio quando il sistema sociale la svuotava di significato. La tiritera sui cavalieri (sono probi, generosi, corretti, difendono le donne e i deboli etc. etc.) è partita quando i cavalieri non contavano più come prima, quando anzi gli ordini cavallereschi si riducevano ad orpelli, a istituzioni onorifiche. Bene. Se avete nostalgia del formalismo della Prima Repubblica, che con tanto piacere è stato disarticolato negli ultimi trent’anni, poi non non proiettate la vostra esigenza di politesse sul calcio. Altrimenti rimane un controsenso il fatto che vi compiacete per un parlamentare dal lessico di Checco Zalone, ma vi indisponete per un allenatore che la spara grossa.

Seconda considerazione. Mentre il dibattito si fermava sul piano piuttosto immateriale del linguaggio di uno solo, passavano sotto traccia fatti se non più gravi, almeno concreti. Negli ultimi anni si è parlato in senso negativo dell’influenza, di una certa influenza, dei tifosi sul calcio. Basta tributi alle curve, redde rationem con gli ultras, squadre che rendono conto alle gradinate di quello che fanno e non fanno. Si può essere d’accordo o meno, ma questa è la vulgata. Perfetto. Domenica sera una delegazione dell’Inter del moralizzatore Mancini, perso il derby col Milan, ha incontrato un drappello di tifosi nerazzurri per il consueto confronto che chiedono quando le cose vanno male. Più o meno nelle stesse ore, con la definizione del passaggio alla Samp, si chiudeva invece lo stillicidio di Fabio Quagliarella, letteralmente mobbizzato dai sostenitori granata. La sua colpa? Aver chiesto scusa al San Paolo per il gol su rigore nella sfida dell’Epifania tra azzurri e Torino. Non sono bastate a ricomporre la frattura la lettera di rammarico pubblicata dal bomber di Castellammare online, il giro di campo redentivo all’Olimpico prima della sfida con l’Empoli, gli appelli alla clemenza del capitano Glik e del presidente Cairo. Un titolarissimo, per via di un solo gesto di conciliazione verso un’altra tifoseria, si è trovato prima per un mese ai margini della squadra e poi sull’autostrada in direzione Genova. La sua unica fortuna, adesso, è che contro il Napoli non deve più giocare. Il problema è che potrebbe esordire proprio contro il Toro. Spero per lui che non segni.

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