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Sei mesi ad aspettare la caduta del provinciale Sarri

Sei mesi ad aspettare la caduta del provinciale Sarri

C’è qualcosa che non torna nel computo del post partita tra Napoli e Inter, una sorta di singhiozzo nel racconto, un blackout temporaneo. L’attenta asetticità e l’assoluta correttezza formale dei commenti piovuti sulle ingiurie pronunciate dal tecnico toscano mi ricordano i miei improbabili tentativi di uscire dalla stanza dei miei figli, neonati e fatti faticosamente addormentare da poco a suon di ninnenanne, nella vana speranza di non sfiorare alcun mobile e non produrre il benché minimo fatale scricchiolio. Mi chiedo, ad esempio, dove siano gli ingredienti interessanti che sembrano scomparsi dalla discussione; dov’è la vita reale – fatta di persone, incontri, scontri, memoria, pregiudizi, convinzioni, timori, ripensamenti. Dov’è il lavoro che di questa vita è il sale. Insomma mi chiedo dove sia finita la contemplazione dell’errore, diventato improvvisamente uno sconosciuto, e dove abiti la possibilità di gestirlo. E, come sempre accade in vicende analoghe, l’assenza di un fattore così peculiare, direi così distintamente umano, nell’analisi di qualunque vicenda terrena, origina il massimalismo e ingolfa il ragionamento.

Forse è meglio ribadirlo: signori, si sbaglia. Facciamocene una ragione. E Sarri ha sbagliato. Ma da tempo l’errore ha smesso di avere un valore assoluto: non schiaccia un uomo e non lo assolve. Nessun errore oggi ha questo potere. Millenni di eventi umani hanno spostato il potere dirimente dall’errore in sè alla sua gestione: errori che producono vergogna, generano vita o morte, producono esaltazione, avviano discussioni. Proprio questo differenzia le storie e dà loro linfa. E proprio per questo chiedere scusa è un primo fondamentale atto di dignità del quale non è detto che si debba pretendere di stabilire tempi e modalità ed al quale, in un consesso civile, si risponde con una presa d’atto. Un punto e a capo.

Mi fa sorridere che ci sia voluta la bellezza di sei mesi perché Maurizio Sarri mostrasse dove fosse nascosto il suo famoso provincialismo, mentre eravamo tutti carognescamente al balcone per capire in quale esatto punto egli sarebbe caduto sotto il peso della modernità. Abbiamo cercato il pelo nell’uovo nella gestione della rosa, nel suo laconico senso della comunicazione, nel suo abbigliamento lievemente demodé, nella sua testardaggine tattica. Eppure nulla di tutto ciò ha mostrato la benché minima crepa: il gioco del Napoli di Sarri è infatti incredibilmente contemporaneo, fluido, più barcellonese che mai. È un calcio di classe sopraffina e modernissima, a mio avviso evidente anche contro l’Inter. Dove Sarri è caduto – mostrando, sì, il limite della sua gavetta, che è poi il limite di tutte le nostre gavette – è nella sovrasemplificazione del contesto. Nel non aspettarsi che uscire da un paese ed entrare in una città ha un suo irriducibile costo, anche se i tanti romanticoni (che lo hanno prontamente abbandonato) dicono di no, ed ha poco a che fare con la stoffa damascata che scegli per la sciarpa ma molto con la capacità di essere semplici come colombe senza mai dimenticarsi di tenere in serbo l’astuzia del serpente. Collassare la complessità delle cose illudendosi di poter usare strumenti troppo elementari per rappresentarle, ossia essere colombe senza essere serpenti, è un errore grossolano. Che si paga.

Sul presunto caso di omofobia, che è una delle varianti preferite dell’intramontabile gioco italiano delle tre carte, mi permetto di suggerire una regola elementare: si giochi a carte scoperte. Il lessico ha importanza, certo, perché misura la nostra inerzia, la lentezza a modificarci, la nostra storia ma anche il nostro confine. Eppure c’è sempre quell’ingrediente di cui sopra che non va dimenticato: la vita reale. Le leggi. I diritti. Il vissuto quotidiano. Chiediamo a Sarri cosa pensa, ad esempio, degli omosessuali nello sport e nel calcio; del matrimonio tra omosessuali; della famosa stepchild adoption di cui discute il nostro Parlamento in questi giorni; chiediamolo poi ai giornalisti che ieri hanno improvvisato un paio d’ore di processo al bon-ton; chiediamolo a Mancini, giustamente sconvolto; chiediamolo alla federazione, sconvolta anch’essa. Magari ci si diverte.

Chi ha paura dell’errore? Per quale ragione l’errore non può essere concesso? Esiste un altro modo di crescere se non iniziare a percepire una propria inadeguatezza? E l’altra sera, in tv, Sarri non appariva forse spaventato da questo suo riconoscersi nudo? Esiste un’altra ragione alla condanna morale a tempo indeterminato che si infligge a Sarri se non il mantenimento di un privilegio da parte di qualcuno? Si rimuove una parola perché scandalosa, si impone la dittatura del sintagma corretto perché questo garantisce che del suo significato, del mondo che vi è dietro – storie, errori, uomini, donne, in carne ed ossa – non si parli mai.

Se vi sentite costretti, in queste ore, a dover scegliere tra il puro e l’impuro, perché avete deciso di impiccarvi ad una parola sbagliata, mi permetto di dire che ciò di cui avete bisogno non è una squadra di calcio. Forse non è neanche il calcio. È una teocrazia.

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