Nei giorni che precedono il 23 novembre, come faccio ahimè da 35 anni, mi sforzo di tirar fuori dal fondo dei ricordi solo apparentemente sopiti l’immagine che più mi riporti a quei drammatici giorni – “a quei giorni”, come felicemente titolò Roberto Ciuni il prezioso volume che raccoglie le pagine che “il Mattino” dedicò alle cronache del terremoto interpretando al meglio, e con uno straordinario impiego di risorse, la sua missione di giornale del territorio – l’attenzione si ferma puntualmente su una avventura vissuta da chi scrive e da altri due cronisti, Francesco Durante e Michele Bonuomo, i quali, tentando alla cieca di ritrovare la strada giusta che li conducesse nel cuore del cratere, arrivarono finalmente ad un casolare seguendo la indicazione di una luce. Un puntino nella notte buia, fredda e piovosa, ma pur sempre un segno di vita. Si fermarono, i tre sprovveduti, provarono a farsi sentire urlando a squarciagola, poi, dopo qualche minuto, si udì la voce di una donna: “Che vulite?” Per accreditarci e, soprattutto, per scacciare ogni (legittimo) sospetto in seguito alla nostra richiesta, aggiungemmo: “Siamo della Rai, non vi preoccupate, abbiamo bisogno solo di una informazione”. La risposta fece più male di una bastonata in testa: “iativenne, la nostra tilivisione funziona”. Ripiombammo nel buio e ci rassegnammo a trascorrere il resto della notte all’addiaccio ma, per fortuna, pochi minuti dopo, forse richiamati dalle voci, arrivarono tre baldi giovanotti spuntati chissà da dove che ci trassero di guai.
Ricordo questo episodio, in fondo banale e del tutto marginale rispetto alla tragedia che si svolgeva intorno a noi, perché più di qualsiasi altra immagine di morte e di distruzione fissa la differenza tra lo scenario di “quei giorni” e oggi. La ricostruzione dei 100mila edifici distrutti o danneggiati e l’avvio della riconversione industriale, bene o male o più male che bene, dipende dai versanti dai quali si affronta il giudizio, è stata (quasi) completata e nei 214 comuni dell’Irpinia, del Sannio e di Potenza sono stati spesi 32mila miliardi e 363 milioni euro, ma dopo questo sforzo gigantesco e spesso poco rispettoso delle priorità e dopo la solidarietà espressa da tutte le regioni («è la pagina più bella di tutte», ricorda Rosanna Repole che proprio in “quel giorno” venne eletta per la prima volta sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi per colmare il vuoto lasciato da Guglielmo Castellano, sepolto dalle macerie insieme ad altri 481 concittadini) la condizione non è granché mutata e l’alta Irpinia, al pari di tutto il Mezzogiorno, è ancora un territorio segnato dall’isolamento geografico e da uno stato di emarginazione sociale ed economica che mette a repentaglio il futuro delle nuove generazioni.
Cosa servirebbe per determinare quella svolta che neanche il terremoto, con i suoi morti e la distruzione di interi paesi, ha portato? Forse un nuovo “Viaggio elettorale” pari per forza e capacità di denuncia da quello effettuato, alla vigilia delle elezioni del 1875, da Francesco De Sanctis, cittadino di Morra Irpina oggi Morra De Sanctis. Partì su una carrozza traballante, trovò condizioni ambientali molto sfavorevoli, ma rispettò l’impegno e denunciò, con la forza dell’amore per la sua terra, lo stato di sottosviluppo e gli effetti nefasti del male di quegli anni, il trasformismo della politica. (Oggi parleremmo di speculazione che, per i modi con cui si rinnova è certamente un fenomeno più grave e devastante).
A ripercorrere i paesi del cratere trentacinque anni dopo si scopre, insomma, che molto è cambiato, ma aver rimesso in piedi il tetto di una casa o di tante case non basta a cambiare la vita. Che grama era e tale resta. Non c’è più il buio di quella notte, nelle stesse condizioni di allora i tre viandanti che avessero smarrito la strada non avrebbero più la porta sbattuta in faccia da una donna che ha imparato a diffidare di tutto e di tutti, ma, anche se nelle celebrazioni di queste ore il tono dei discorsi è stato più volto all’ottimismo che al pessimismo, la distanza tra le due Italie è aumentata. E i territori dell’osso, più segnati dal dolore e dall’isolamento, come l’Alta Irpinia, vivono di sogni più che di certezze. Tra dieci anni, l’alta velocità ferroviaria tra Napoli e Bari aprirà una stagione nuova e più serena, ma a quella data i ventenni di oggi avranno trent’anni che non è certo l’età giusta per pensare ad una rivincita. «È proprio questo il mio timore – dice Rosanna Repole – e per non lasciar morire la speranza ci stiamo dando da fare per ritrovare da soli la strada dell’identità smarrita con il crollo delle case e la morte di tanti nostri fratelli e sorelle». Si scopre così che la ruralità non è una condizione di sottosviluppo, ma un’arma vincente se si riesce a inserirla nel circuito regionale e nazionale utilizzando al meglio le risorse enogastronomiche e il patrimonio di storia di cultura e di ambiente che è la vera forza del Mezzogiorno che ancora guarda l’Europa da troppo lontano. I gruppi di azione locale (Gal) sono sorti per inseguire questo obiettivo, speriamo che non sbaglino strada come accadde a quei cronisti di trentacinque anni fa. Carlo Franco