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La Napoli del tifo soffre ma non si sacrifica. E la maglia sudata simboleggia perfettamente l’idea della sofferenza

La Napoli del tifo soffre ma non si sacrifica. E la maglia sudata simboleggia perfettamente l’idea della sofferenza

Quest’estate ho trascorso alcuni giorni al mare in compagnia, tra gli altri, di un amico torinese e torinista il quale, durante le solite accese discussioni campanilistiche sotto la canicola e al fresco di una pinta di birra gelata, sentitosi folgorato dalla potenza espressiva di immagini linguistiche surreali quali “‘O ciuccio ‘e Fechella”, ha prima opposto una incerta resistenza iniziando una apologia delle virtù della bagna cauda, per poi capitolare onoratamente con un onesto “credo che alla fine di questa vacanza tiferò per il Napoli”. Un amico torinese riscopertosi, a quarant’anni, della Sanità, insomma.

Ma, a parte il blatericcio agostano, un argomento mi è parso assai interessante; ovvero l’analogia che entrambi cercavamo di trovare tra il Toro ed il Napoli, le storie di due losers– o di due fighters, come soleva correggermi, quando parlavamo di Italia e Irlanda, un altro amico irlandese che, nel suo tipico mix di orgoglio e disincanto, spiegava che in ogni piazza principale di ciascuna delle città della Repubblica campeggia la statua di un glorioso combattente irlandese morto in qualche battaglia sconfitto da qualche Inglese.

Ma, dicevamo, Toro e Napoli. Secondo il torinese e torinista, essi abitano un luogo comune che è il sacrificio, che deriva da una storia, in larga parte, di sconfitte. Per quanto sulla spiaggia abbia abbracciato questa idea, affascinato dall’ipotesi, confesso di non essere oggi molto convinto della sua giustezza. Mi pare, infatti, che, più che l’etica del sacrificio, Napoli ricerchi con maggiore convinzione quella della sopportazione. Quali siano i motivi storici, non mi azzardo qui a dire. Ma, di sicuro, la città si trova a maggior agio convincendosi della necessità di dover patire la propria inevitabile sofferenza oggi piuttosto che sacrificarsi per modificare il corso degli eventi domani. Come ci spiega anche l’etimologia dei due termini, mentre il sopportare è l’atto di chi si carica staticamente sulle spalle un fardello ponderoso – magari di responsabilità non necessariamente proprie, quasi come il povero Atlante con il mondo intero sul collo – il sacrificare consiste nel privarsi, per il bene altrui, di qualcosa che si ha e che si desidererebbe continuare ad avere, rendendo quel qualcosa, appunto, sacro. Il sacrificio presuppone una fiducia, nell’altro e nel futuro, che la sofferenza della sopportazione non richiede. (D’altra parte, Atlante, che era assai diffidente e non sperava di liberarsi un giorno, riuscì solo una volta a ingannare e cedere il peso ad un altro sconsiderato, tale Eracle, il quale, per tutta risposta, fu costretto pure a fare fesso il povero Atlante con uno stratagemma del tipo: “Aspè, mantieni di nuovo tu un attimo, che torno subito”).

La mia impressione è che la Napoli del tifo di oggi – e forse non solo – soffre, ma non si sacrifica. Una prova materiale è la nuova morale imperante della maglia sudata: la maglia sudata è la quint’essenza della sofferenza (finalmente!), dell’idea che per vincere bisogni soffrire tanto, mostrare animi contriti, visi che sopportano carichi enormi. Che è anche un’idea ottocentesca del lavoro, purtroppo, largamente imperante dalle nostre parti, seppure particolarmente anacronistica oggigiorno in cui, nel mondo, tutte le imprese moderne, dalle startup di tre soci alle multinazionali di decine di migliaia di impiegati, “accarezzano” i propri dipendenti con ogni tipo di benefit – il frigo pieno di bibite, la frutta fresca, i biliardini e ogni sorta di diavoleria accattivante. Perché si è scoperto che la felicità del lavoratore è un alleato strategico fondamentale per il successo di un prodotto – la felicità che prima si tentava di tenere viva con le furnacelle e i giorni liberi da passare in famiglia, e che mi pare sia la medesima cui Sarri, acutamente, si riferisse parlando, tempo fa, di Higuain. (A tal proposito: siamo sicuri che Sarri ami l’etica presidenziale del sudore delle maglie? Che sia un uomo di sofferenza e non, piuttosto, di sacrificio?).

Con tremila abbonati ad oggi, le scritte in città su chi milita e chi merita, potrebbe convenire dire basta alla sofferenza per abbracciare un po’ di sacrificio: voler investire qualcosa di proprio per contribuire a fare una differenza, seppur minima. Anche perché, tutto considerato, non è il soffrire che ci è mancato in passato, quanto l’intensità. Anche qui ci aiuta l’etimo – la capacità di rivolgersi ad un obiettivo, di capire il gioco e di affondare o alzare il piede sull’acceleratore quando è necessario. Non ci serve la costanza un po’ ebete del sofferente a vita. Ci serve solo sacrificare la nostra sofferenza, quando serve. Riconoscere i momenti per dosarci, rimanendo felici di giocare e veder giocare.

Insomma, caro amico torinese e torinista, gira e rigira, il guaio di Napoli è proprio l’immagine de “‘O ciuccio ‘e Fechella”. Lo so, ne rimarrai turbato, ma tant’è. A proposito, ma i “Tori ‘e Fechella” esisteranno?
Raniero Virgilio

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