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Chiudere le curve è una forma di ipocrisia

Chiudere le curve è una forma di ipocrisia

Sulla vicenda di Ciro Esposito e sugli striscioni esposti durante il match Roma-Napoli si è letto di tutto e di più. Purtroppo, come è normale che sia, anche molta sociologia “d’accatto”. Soprattutto negli ambienti del tifo romanista e napoletano, l’argomento è stato oggetto di interminabili discussioni.
Al netto di quelle posizioni sulle quali è evidente l’impossibilità di un seppur minimo dialogo, possiamo provare a suddividere le posizioni espresse fino ad ora in due grandi filoni: uno, quello sostenuto anche da Il Napolista, secondo cui il calcio italiano è ostaggio degli ultras. E che quindi qualsiasi velleità di cambiamento viene bloccata sul nascere dal giogo a cui i presidenti delle società italiane sarebbero sottoposti. L’altro, quello secondo cui il “movimento” ultras è da anni oggetto di una stretta repressiva che lo sta mano a mano portando a scomparire. A scanso di equivoci, tengo a precisare che queste due posizioni che ho (sommariamente) indicato, sono relative esclusivamente all’analisi del contesto in cui i fatti sono avvenuti. E che quindi, le conclusioni a cui poi si giunge, possono ovviamente essere differenti.
Personalmente, non trovo completamente condivisibili né l’una né l’altra posizione. Le dinamiche delle curve sono spesso sfuggenti, eterogenee, “liquide”. Si prestano a semplificazioni. Proprio per questo motivo trovo non del tutto appropriato l’utilizzo del termine “movimento” in relazione agli ultras. Mi spiego meglio: se da una parte è vero che da anni il sistema calcistico e politico sta provando a porre in essere delle misure per “fermare gli episodi di violenza negli stadi”, è vero anche che lo stesso sistema si limita ad attuare questi provvedimenti solamente in quei casi in cui ritiene che questi episodi siano certamente dannosi per l’apparato di interessi che quest’ultimo difende. Faccio un esempio: la sovraesposizione mediatica del famigerato Genny ‘a carogna nelle settimane successive alla finale di Coppa Italia. Provvedimenti esemplari, diffide, imputazioni fantasiose, interviste al padre. Parliamoci chiaramente: le chiacchiere che da anni siamo costretti a sorbirci da parte dei presidenti delle società in merito a questa questione, sono in buona parte frottole. Al presidente di una società di calcio fa molto comodo avere un dialogo con un manipolo di persone che ha il controllo su un settore dello stadio formato da decine di migliaia di tifosi. Tra l’altro, se questo dialogo avvenisse alla luce del sole e senza delle trattative sotto banco, lo troverei anche positivo.
Questo lo sanno loro, lo sanno i Prefetti, lo sa chi gestisce l’ordine pubblico. Il motivo per cui difficilmente potranno cambiare le cose è dato proprio da questa cointeressenza di interessi tra presidenti, istituzioni calcistiche e personaggi che ben poco hanno a che vedere con il tifo (ma anche con la sottocultura ultras stessa). Personaggi che, specialmente nelle curve delle grandi città, svolgono spesso il ruolo di bassa manovalanza in periodo di elezioni. Di cassa di risonanza a favore di organizzazioni di estrema destra a cui, alla faccia del “tifiamo solo la maglia”, concedono spazi di agibilità politica e di propaganda sulle gradinate. Un ruolo, questo sì, infame. E non mi riferisco solo agli striscioni contro Antonella Leardi ma, andando indietro nel tempo, di casi analoghi se ne potrebbero rinvenire a iosa. Di marchette politiche sulle gradinate di uno stadio è piena la storia. Per limitarmi ad uno dei casi più eclatanti, cito la presenza di Renata Polverini nella curva laziale sotto campagna elettorale. A cavalcioni sulla vetrata, ad arraffare avidamente i voti dei tifosi laziali. Voti che poi la portarono a vincere le elezioni regionali. Per non parlare della gestione del merchandising “curvarolo”, che a cavallo tra gli anni ’90 e ’00 ha rappresentato a Roma una vera e propria tendenza modaiola. Queste sono le stesse persone che hanno poi la faccia di accusare una donna di “lucrare sulla morte del figlio” per aver scritto un libro i cui proventi, a detta della stampa, sarebbero destinati all’ospedale che ha provato a salvare la vita al figlio. Ospedale romano, tra l’altro.
Qualcosa di molto lontano da ciò che il compianto Valerio Marchi definiva teppa. E perchè la curva sud, ancora oggi, difende a spada tratta De Santis? Egli, a quanto pare allontanato dal settore anni fa in circostanza poco chiare, ha compiuto un gesto che nulla a che vedere con quelle che sono le “regole di ingaggio” accettate nel mondo ultras. Mai era successo in Italia che durante dei tafferugli, qualcuno estraesse la pistola. E questa difesa dell’indifendibile, sta creando non pochi problemi al tifo organizzato romanista, ad oggi percepito non solo in Italia ma in Europa, come una tifoseria “infame”. Evidentemente pensare che lo facciano solo perchè “Gastone” era uno di loro, mi pare riduttivo. A quanto pare infatti, De Santis era completamente addentro a quel sottobosco di cui ho parlato prima fatto di clientele, voto di scambio, criminalità più o meno comune, capibastone. Un sottobosco che l’ex sindaco di Roma Alemanno conosce abbastanza bene. D’altronde non è un mistero che De Santis lavorava come custode all’interno di una struttura prima occupata da un’associazione pseudo politica che durante le elezioni lo ha appoggiato (“Gastone” era pure candidato) e poi sanata dal “sindaco con la celtica al collo”.
Insomma, spesso le cose sono molto più complesse e meno assolute di quanto sembri. Ed è essenzialmente per questo motivo che io non mi aggrego al coro che chiede sanzioni esemplari e chiusura delle curve. Perchè lo trovo inutile, un palliativo. Una misura che, come sempre accade, penalizza principalmente la maggioranza degli appassionati, schiacciati tra l’incudine di chi propaganda odio per tornaconto personale e il martello di un sistema ormai al collasso. Sistema che, adottando queste misure, alla fine passa come sano agli occhi dei più disattenti. E così facendo non fa che autoconservarsi. Purtroppo continuerà ad essere sempre così fino a quando non si deciderà di fare qualcosa che, a mio parere, sarebbe autodistruttivo per la situazione in cui versa il nostro calcio: smetterla con questa vomitevole ipocrisia. Sarebbe il primo passo, il più importante per far sì che le curve italiane tornino ad essere un luogo di aggregazione, di tifo indiavolato e viscerale ma allo stesso tempo estraneo a qualsiasi forma di razzismo e prevaricazione.

Matteo Sirgiovanni

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