Spalletti alla Juventus. La questione non è il professionismo, sono il populismo e la vanità
Si può cambiare squadra senza aver prima giurato fedeltà eterna, come ha fatto tante volte Antonio Conte. E si può invece cedere al populismo come Spalletti che pronunciò quella parole per intestarsi quello scudetto

Napoli's Italian coach Luciano Spalletti waves prior to during the Italian Serie A football match between Napoli and Sampdoria on June 4, 2023 at the Diego-Maradona stadium in Naples. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP)
Spalletti alla Juventus. La questione non è il professionismo. Sono il populismo e la vanità
Per una volta mi tocca essere in disaccordo con Mario Piccirillo che bacchetta i tifosi che hanno preso male l’arrivo di Spalletti alla Juventus (tra l’altro vestito di bianco e nero) rimproverando loro di non aver imparato il concetto di “professionismo” e di conseguenza di tacciare di tradimento tutti i calciatori e gli allenatori che da Napoli migrano verso Torino, sponda bianconera.
Mi tocca essere in disaccordo perché per me il professionismo non c’entra nulla. C’entrano piuttosto il populismo e la vanità, la vigliaccheria in qualche caso, quasi sempre la voglia di piacere ed essere amati. Anche a costo di qualche bugia che, però, prima o poi verrà rinfacciata.
Il calcio è un mondo a sé stante, una bolla con le sue regole. Calciatori e allenatori dei campionati importanti sono strapagati, più di quanto ogni “professionista” appartenente ad altri contesti lavorativi possa anche solo sognare.
A distorcere verso l’infinitamente alto le retribuzioni di atleti e allenatori (e procuratori, ma è un altro discorso) è quella cosa totalmente folle e irrazionale chiamata tifo. Un fenomeno che raduna milioni di persone negli stadi ogni volta che c’è una giornata di campionato, che fa spendere loro un bel po’ di soldi tra biglietti, abbonamenti, pay-tv, merchandising, memorabilia, etc. etc.
Soldi che finiscono, in buona parte, proprio nelle tasche di quelli che vanno in campo ed è dunque, se non giusto, quantomeno naturale che tutti i protagonisti alimentino un racconto collettivo fatto di bandiere, sudore, amore per la maglia, mancate esultanze in caso di gol dell’ex e tutto il repertorio della retorica che conosciamo a memoria.
Il calcio è bugia, disse Benitez a Gianni Mura, è in buona parte finzione. Ma è una finzione che deve mantenere la propria coerenza interna, con lo scopo principale di tenersi buoni i tifosi. Perché se finisce il tifo, finiscono i soldi e nessuno vuole nemmeno rischiare di arrivare a tanto.
Il tifo vuole eroi, bandiere, leggende. Così al tifo si giura amore eterno (finché dura). E per questo il tifo non perdona chi “tradisce”.
La parte patologica di questo rapporto la conosciamo, è quella che non consente di eliminare i violenti dagli stadi o che ci consegna le scene patetiche dei giocatori che vanno a chiedere scusa dopo una sconfitta. Una patologia che, ad esempio, infligge una otosclerosi fulminea a tutti quelli che sono in campo (spesso arbitri compresi) quando ci sono cori razzisti.
Ma torniamo a Spalletti e al suo addio al Napoli appena scudettato. Un addio tormentato (credo, in realtà, che buona parte della vita calcistica di Spalletti lo sia stata), giustificato con la voglia di staccare e addolcito da dichiarazioni impegnative nei confronti dei tifosi. Il tatuaggio sul braccio e la frase “Io non voglio giocare contro il Napoli, non voglio mettere una tuta che sia differente da quella del Napoli” mi suonarono da subito come qualcosa che gli si sarebbe ritorto contro.
Il seguito lo sappiamo. La chiamata della Nazionale gli ha fatto passare la voglia di prendersi un anno sabbatico e di badare agli struzzi, mentre ora la chiamata della Juve gli farà smentire sé stesso anche sul versante tuta. E naturalmente non ha tardato a palesarsi una fetta di tifosi del Napoli pronta a rinfacciarglielo. Così come non mancano i tifosi della Juve che vivono come un affronto avere un allenatore con la N tatuata sul braccio (io fossi in loro avrei vissuto peggio essere allenato da Thiago Motta, ma vabbè).
Ora la domanda non è perché Spalletti non ha tenuto fede alle proprie “promesse” (spoiler: per i soldi), ma perché mai Spalletti si lanciò in quelle dichiarazioni.
Non è il primo del mondo del calcio, beninteso, che si rimangia quanto detto. Per tornare all’articolo di Piccirillo e ad alcuni degli esempi che cita, Higuain se ne andò (di notte) alla Juve dopo aver detto a favore di telecamera che sarebbe tornato presto a Napoli e che non c’era nulla di vero nelle voci su lui alla Juve. Un tipico esempio di dichiarazione infantilmente vigliacca, resa semplicemente perché gli mancava il coraggio di dire la verità. Come un bimbo che ha rotto il vaso della nonna e spergiura di non essere stato lui.
Un caso diverso, ascrivibile al populismo, è quello di Sarri che durante la sua permanenza a Napoli si mascherò da masaniello lanciato a bomba contro l’ingiustizia “strisciata” e il “palazzo del potere”, salvo rimangiarsi, un paio d’anni dopo, fino all’ultima sillaba e all’ultimo dito medio pur di andare a sedersi sulla panchina che fu di Trapattoni, Allegri e Antonio Conte (e vincere finalmente uno scudetto). Le sue furono bugie di tipo politico, quelle tipo “con Bossi non prenderò mai neppure un caffè” oppure “se perdo il referendum lascio la politica”. Lo scopo era quello di imbonire il popolo, cercare alibi per le mancate vittorie, approfittare del momento in cui la popolarità di De Laurentiis era al minimo storico e potersene andare da “vincitore morale”, anziché da perdente.
Anche nella vicenda Spalletti c’entra il suo rapporto con De Laurentiis.
Il terzo, storico, scudetto era stato vinto già a marzo e, come uno tsunami emotivo, aveva travolto tutti i suoi protagonisti. Durante i mesi che trascorsero in attesa della certificazione algebrica della vittoria, la tensione sportiva era, giocoforza, poca. Così al suo posto fece irruzione una tensione egocentrica e vanesia che assalì Spalletti, De Laurentiis e Giuntoli, ognuno voglioso di aggiungere il proprio nome come complemento di specificazione del tricolore.
Quelli del 1987 e del 1990 furono gli scudetti di Maradona (auguri Diego, ovunque tu sia), quello del 2023 come sarebbe passato alla storia?
E così mentre Giuntoli sfoggiava nelle interviste tutta la sua collezione di occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero e, soprattutto, per preparare il suo approdo in bianconero, Spalletti iniziava, come si dice a Napoli, a sciogliere il rosario delle ingiustizie e degli sgarbi subiti dal Presidente. De Laurentiis, dal canto suo, pregustava la festa con fumi e raggi laser e soprattutto le sue passerelle a petto gonfio al Maradona, possibilmente da solo.
Fu al termine di quella sfrenata corsa a tre della vanità che Spalletti pronunciò le parole che oggi gli vengono rinfacciate. Parole dettate dalla voglia di intestarsi quello scudetto e, di conseguenza, l’amore imperituro dei tifosi.
Se Spalletti non fa una bella figura oggi, va detto che anche Giuntoli e De Laurentiis sono stati smentiti, non da loro stessi ma dai fatti. Il primo credo che rientri a pieno titolo nella hall of shame della Juventus, visto il disastro compiuto in soli 9 mesi.
De Laurentiis in versione uomo solo al comando, da parte sua, ha reso quella post terzo scudetto la peggior stagione di sempre di una squadra Campione d’Italia.
Poi è arrivato Conte e in un colpo solo ha rimesso tutto a posto, se non altro togliendo al terzo scudetto il connotato della storicità, visto che ne ha aggiunto subito un quarto.
Proprio Antonio Conte, antipatico come pochi, rappresenta un esempio virtuoso in chiave anti populista. Uno che da juventino e allenatore della Juve dichiarò che se un domani si fosse trovato ad allenare Inter (come poi è accaduto) o Milan sarebbe diventato immediatamente il primo tifoso di quelle squadre. Uno che a Napoli ha messo subito in chiaro che non aveva alcuna intenzione di mettere in discussione la sua juventinità. Uno che non ne vuole sapere di mentire e millantare amore pur di farsi amare. Forse perché non ne ha bisogno, visto che per lui parlano i risultati e gli scudetti più di un ipotetico tatuaggio o di una fantomatica lotta contro le ingiustizie.











