David Luiz: «Sarri urlava ad Hazard di pressare e io gli dicevo: “mister, qua devi gestire, ci sono altri giocatori”»
Il brasiliano alla Gazzetta. Ora gioca al Pafos: «Conte è un grande allenatore, molto passionale. Con lui abbiamo vinto una Premier League. Il Mineirazo? Fummo troppo presuntuosi»

Mg Nizza (Francia) 28/07/2018 - amichevole / Chelsea-Inter / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: David Luiz
David Luiz parla alla viglia della partita Juventus-Pafos prevista stasera alle 21. L’ex Chelsea si racconta: le scarpe false da bambino, il rifiuto al Porto, la Champions vinta da infortunato e il Mineirazo (la storica e drammatica sconfitta per 7-1 contro la Germania nella semifinale del Mondiale 2014) che gli ha cambiato la vita. Oggi, a 38 anni, vuole diventare allenatore e continua a credere che tutto sia possibile. Le sue parole:
«Mi diverto ancora, è un dono di Dio poter giocare a questi livelli. Ho avuto qualche problema fisico a inizio anno, ma ora sto bene, mentalmente e fisicamente.»
Le parole di David Luiz
Perché ha scelto il Pafos per l’ultima parte della sua carriera?
«Conoscevo il progetto da un paio d’anni. I proprietari sono persone fantastiche e ho sempre immaginato di chiudere qui la mia carriera. Il club è ambizioso, le infrastrutture moderne, lo staff preparato. E poi lo stile di vita è meraviglioso: sole, mare, i miei figli felici. Il calcio a Cipro sta crescendo e noi ci giochiamo la Champions.»
Com’era l’ambiente in cui è cresciuto?
«Sono nato in una famiglia molto umile, i miei genitori erano insegnanti. Hanno studiato pedagogia e poi hanno lavorato in una scuola. Mio padre preparava i ragazzi al loro futuro, al mondo del lavoro. Mia mamma lavorava coi bambini. Io sono sempre stato un ragazzo pieno di energia, mi piaceva studiare statistica e non dormivo mai. A 10 anni pensavo di diventare insegnante di matematica. Poi ho preferito darmi al calcio. Mio padre è stato calciatore, io mi addormentavo sempre con la palla nel letto. Ho fatto anche judo e capoeira, un’arte marziale brasiliana che unisce lotta, danza, acrobazie e musica»
È vero che da ragazzo giocava con scarpe false?
«Quando ero al San Paolo, all’inizio giocavo con delle scarpe false, comprate da un venditore ambulante. Tutti i miei compagni indossavano Nike o Adidas. Un pomeriggio accompagnai un mio compagno di squadra al mercato insieme a sua mamma, e lei gli comprò un paio di scarpe da calcio nuove della Nike, l’ultima novità. Io le desideravo tantissimo, ma sapevo di non potermele permettere. Così dissi alla mamma del mio amico: “Anche mia mamma è d’accordo se me le prendi”. Non era vero. Il mese successivo lei chiamò a casa mia per farsi restituire i soldi, ma mia mamma non sapeva nulla. Si arrabbiò parecchio con me. Pensi che Nike divenne poi il mio sponsor per dieci anni. Una bella storia».
Lei era un numero 10: come è diventato difensore?
«Io sono sempre stato un numero 10 fino ai 16 anni. Ricordo che, con il Vitoria, facemmo oltre 70 ore di pullman per giocare un torneo a Rio Grande do Sul. Partimmo da Salvador. Nella prima partita due difensori si infortunarono. Io ero in panchina, mi alzai e dissi: ‘Posso giocare io in difesa’. L’allenatore mi rispose: ‘No, non hai mai giocato in quel ruolo’. Mi provò nella seconda partita e andò bene, così come la seguente. Finimmo terzi nel torneo. Risultato? Fui premiato come miglior difensore. Dopo sette mesi firmai il mio primo contratto da professionista e, dopo un anno, andai al Benfica. Al Chelsea ho giocato un paio di stagioni anche da centrocampista, persino in una finale di Europa League.»
Il 2014 è l’anno del Mineirazo: Brasile-Germania 1-7, una delle sconfitte più epocali della storia del calcio. C’è un’immagine eloquente che riassume quella serata, le sue lacrime. Cosa ha rappresentato per lei quella sfida, in campo e nella vita?
«È stata la più brutta serata della mia carriera. Giocavamo un gran calcio, ma perdere 7-1 in casa nostra era impensabile. Un dolore enorme, ero distrutto e in lacrime. La verità è che non eravamo pronti a perdere, non ci immaginavamo una sconfitta. L’anno prima avevamo vinto la Confederations Cup contro una Spagna di fenomeni. Contro la Germania al Mondiale abbiamo avuto un blackout collettivo. Anche quando eravamo 3-0 sotto, in campo ci dicevamo: ‘Ok, ora segniamo e rimontiamo’. Invece, continuavamo ad affondare. Siamo stati troppo presuntuosi. Ma da quella partita ho imparato tantissimo: come reagire dopo una sconfitta, cosa significa passare mesi a fare incubi, a pensare notte dopo notte a cosa avresti potuto fare. Non ho dormito per settimane. Alla fine, però, penso che mi sia servita moltissimo come lezione».
Il rifiuto al Porto ha cambiato la sua carriera?
«A giugno andai in scadenza e il Benfica mi offrì un contratto da tremila euro al mese. Avevo 20 anni. Il Porto venne da me proponendomi un contratto di cinque anni a cifre nettamente superiori. Io non ero la priorità del Benfica, mentre il Porto mi voleva davvero. Così chiamai i miei genitori e mio padre mi disse: “Non sputare nel piatto in cui hai mangiato. Rispetta le persone che hanno creduto in te. Firma per il Benfica, non per i soldi”. Fu una grande lezione di vita».
Lei ha avuto allenatori come Ancelotti, Conte, Sarri. Un ricordo veloce?
«Conte è un grande allenatore, molto passionale. Con lui abbiamo vinto una Premier League. Anche con Sarri ho avuto un ottimo rapporto, ma per lui all’inizio è stato difficile. Cercava di portare lo stesso gioco che aveva fatto a Napoli. Ricordo che continuava a urlare ad Hazard: ‘Devi pressare!’, e io gli dicevo: ‘Mister, qua devi gestire, ci sono altri giocatori’. Ma lui rispondeva: ‘No, non mi interessa!’. Nei primi 2‑3 mesi, durante le trasferte in treno, lo vedevo lanciare pezzi di carta per terra dicendo: ‘Me ne vado, non mi interessa!’. Ogni giorno andavo nel suo ufficio per confrontarmi e lui fumava. Io gli parlavo coprendomi la faccia. Dopo tre mesi, però, la squadra ha cominciato a seguirlo, e noi anche. Non a caso abbiamo vinto l’Europa League».











