Al podcast Bsmt: «Abbiamo dormito nei campi col sacco a pelo. Alle 6 svegli, 5-6 km, si mangiavano le scatolette scaldate col fornetto. Ci facevano anche sparare»
Federico Dimarco, calciatore dell’Inter e della Nazionale italiana, ha rilasciato una lunga intervista a Gianluca Gazzoli, autore del podcast “Passa dal Basement”. «Ho iniziato a 5 anni – racconta Dimarco – Ho fatto due anni a Calvairate, che è dalle mie parti, e poi sono andato all’Inter a 8 anni. Ho fatto tutta la trafila fino all’esordio in prima squadra dove c’era Mancini».
Dimarco: «Un’esperienza estrema, ci facevano anche sparare»
Cosa vuol dire giocare nelle giovanili? Come si comportavano i tuoi genitori?
«Mio padre, quando mi ha portato per la prima volta a calcio, gli ha detto al mister della Calvairate: “Vedete com’è, se si diverte tenetevelo altrimenti me lo riprendo”. I miei genitori mi seguivano e anche mio zio, ma mi hanno sempre lasciato fare e hanno cercato di tenermi coi piedi per terra. Negli anni sono sempre stato giudicato perché ero troppo piccolo di statura, non venivo ritenuto adatto e pronto. Poi alla fine il lavoro paga e sono arrivato dove sono arrivato».
Com’è arrivata la chiamata in prima squadra?
«Ho iniziato ad essere aggregato che avevo 16 anni, mi allenavo e basta senza essere convocato. C’era Mazzarri allenatore ma c’erano ancora leggende come Samuel, Cambiasso, Milito. Era l’ultimo anno di Zanetti. Quando sei così giovane, è un tuffo al cuore. Vedere Milito dal vivo è stato emozionante. Ha iniziato a convocarmi Mancini, ho fatto l’esordio in Europa League e a fine campionato ho esordito in Serie A contro l’Empoli».
E poi cosa succede?
«L’anno dopo faccio sei mesi in prima squadra dove non gioco mai e a gennaio vado ad Ascoli, in una situazione difficile. Esperienza bellissima, era la prima volta che andavo fuori casa e salvarsi all’ultima giornata dopo essere stati in Serie B è stato bello».
Dopo Ascoli?
«Ho fatto Empoli, un anno dove ho giocato 13-14 gare ma non ero sceso tantissimo in campo. L’anno dopo avevo delle squadre che mi volevano, ma come giovane riserva del titolare più esperto. Non ero d’accordo e sono andato in Svizzera. Parto benissimo col Sion, prima gara di campionato e rottura del metatarso: quattro mesi fermo. Rientro che era cambiato l’allenatore, a gennaio siamo ultimi e penultimi e succede una cosa folle. Il presidente ebbe la bella idea di mandarci una settimana a fare il militare con le forze speciali francesi, per punizione visto che eravamo ultimi. Abbiamo dormito nei campi col sacco a pelo.
La mattina alle 6 svegli, a camminare 5-6 km, mangiavamo dentro le scatolette che scaldavamo col fornetto. L’abbiamo fatto a inizio gennaio, durante la sosta invernale. Quando me l’avevano detto non volevo andare, ma se lo facevi non ti pagavano. Un’esperienza estrema, addestramenti in cui ci facevano anche sparare. Era una punizione perché eravamo ultimi. Al rientro eravamo più carichi, ma io ho discusso con l’allenatore e non ho più giocato fino a fine anno».
C’è stato un punto in cui hai invertito la tendenza?
«A Parma mi ero fatto conoscere. Quando rientro all’Inter Conte, dopo qualche allenamento, mi dice: “Fede, voglio che rimani”. Io ero gasato e spiazzato, ma nei sei mesi non ho giocato quasi mai. A gennaio ho dovuto supplicarlo per andar via, perché all’inizio non mi voleva far partire. Erano arrivati Moses e Young, vado a Verona. Sono stato un anno e mezzo a Verona, quella è stata la svolta».
Cos’è successo, che ha funzionato?
«Ogni volta che vedo sia il mister Juric e Tony D’Amico li saluto con affetto».