Al Venerdì: «Ho temuto la morte per tutta la vita, sono stato un ipocondriaco, temevo di non avere tempo per godermi tutto. Ora non mi spaventa più».
Il Venerdì di Repubblica intervista Domenico Starnone. Einaudi sta per pubblicare “L’umanità è un tirocinio”, una raccolta di saggi scritti nel corso di svariati decenni. Starnone ha compiuto da poco 80 anni.
«È il classico libro della vecchiaia. Il tempo è passato e ti metti a seguire le tue stesse tracce, quelle che hai lasciato nel corso di una vita. In principio volevo rimediare al senso di casualità e incompiutezza mettendoci tutto quello che ho avuto a cuore: la scuola, la politica, la letteratura. Poi ho ristretto il campo ai testi sulla lettura e sulla scrittura. E ho preferito all’ordine cronologico l’accostamento di pezzi anche distanti nel tempo».
Norberto Bobbio in De Senectute scrive che la vecchiaia diventa il momento in cui hai piena consapevolezza che il cammino non è compiuto, ma non hai più il tempo di compierlo. E devi rinunciare a raggiungere l’ultima tappa. A Starnone viene chiesto se questo suscita più frustrazione o sentimento di libertà. Risponde:
«Propendo per la seconda ipotesi. E ci aggiungerei un senso di felicità. All’improvviso senti che il tuo futuro non ti preoccupa più. Certo, faccio progetti, anche troppi. Ma che non si realizzino non mi dà più angoscia. Ho l’assillo del futuro degli altri, dei miei figli, dei miei nipoti. L’ansia per il mio non ce l’ho più».
In passato, invece, confessa Starnone, ne ha sofferto molto.
«Sì, molto. Da ragazzo ho scritto un raccontino su una sorta di battaglia metafisica tra il male e il bene, e l’ossessione maggiore del protagonista era restare vivo per sapere come lo scontro sarebbe andato a finire. Oggi la battaglia ancora mi incuriosisce, ma non ho più la paura di perdermi chissà quale decisivo finale. Per molti aspetti è un sollievo, cambia il rapporto con la morte».
Spiega come.
«La morte non mi spaventa più. L’ho temuta per tutta la vita, sono stato un ipocondriaco, temevo di non avere il tempo di godermi la vita, costruire affetti, storie, libri. Da un po’ di tempo è diverso. Prima mi spaventava la precarietà, l’irruzione improvvisa della malattia. Oggi mi organizzo anche con la scrittura in funzione della mia fragilità di anziano. Progetto libri brevi o volumi come questo L’umanità è un tirocinio, con cui provo a raccontare servendomi dei materiali già scritti che mi sono lasciato alle spalle».
Al centro di Via Gemito c’è la figura di suo padre. A Starnone viene chiesto se è riuscito a farci i conti.
«Col padre reale sì, ma con l’immagine paterna i conti non tornano mai. La conciliazione finale è un artificio dei romanzi, l’ombra paterna ti grava addosso per tutta la vita. In compenso il mio umanissimo padre vero mi ha influenzato molto. Senza di lui non avrei mai pensato di diventare scrittore: non avevo modelli intorno a me, se non lui che cocciutamente voleva dar forma al suo talento e fare il pittore. Ma è stato importante anche nel modellarmi alla rovescia».
In che senso?
«Mentre mio padre reagiva alle disillusioni e alle frustrazioni rappresentandosi come una figura artistica importante, io per reazione ho cercato di tenermi il più possibile dentro i confini che mi ero dato: evitare l’autoesaltazione, ricorrere sempre all’autoironia, cercare di dare il massimo senza però attribuire al mio massimo chissà quale superlativo valore».
La vanteria di suo padre la feriva? Starnone:
«È stato il più grande problema della mia adolescenza e giovinezza».
In fondo è riuscito a riscattarne la figura.
«Sì, lui oggi è il mio lignaggio, la figura d’artista da cui discendo, quella che mi ha trasmesso un po’ del suo talento e che mi ha educato».
Qual è l’esito del tirocinio di Starnone?
«Sono diventato un pessimista divertito. Oggi non riesco a pensare che l’umanità abbia un grande destino davanti. E io stesso mi immagino destinato a quel congegno inesorabile del mercato che, appena smetti di produrre, ti fa sparire e nessuno ti legge più. Neppure la resistenza della ginestra leopardiana mi instilla una goccia di ottimismo. Tuttavia, se si riesce a guardare la realtà con la capacità di sorridere, stare al mondo è una gioia. Nonostante l’orrore».