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Il Napoli di De Laurentiis è stato perfettamente descritto da Euripide

Il Napoli di oggi non è più dionisiaco, è tutto diverso dall’87, è tutto nato da una forza altra. I contestatori cronici ricordano Garinei e Giovannini

Il Napoli di De Laurentiis è stato perfettamente descritto da Euripide
Fifa president Gianni Infantino (L), former Napoli president Corrado Ferlaino (C) and current president Aurelio de Laurentiis arrive for the inauguration ceremony of a bronze statue depicting Argentinian football legend Diego Armando Maradona. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP)

Comunque la si voglia guardare, non c’è dubbio che la lunga processione del Napoli di questa stagione presenti tutte le caratteristiche della più alta trascendenza. Essa sembra venire per confutare, negare, ammutolire, letteralmente annientare tutto quanto era stato sostenuto nel passato, in granelli di polvere. Giunge quando la sede societaria è saldamente a Castel Volturno, quando l’anagrafe del presidente è rimasta romana, quando le ragioni della politica della conservazione degli insostituibili talenti sono franate in modo fragoroso, quando il tema dei prezzi dei biglietti allo stadio è completamente svanito, quando le previsioni di svendita sono volate nel vento, quando i consigli su mercato e rischio d’impresa sono ormai consegnati all’oblio. L’esercito dei più o meno giovani coraggiosi che hanno ringhiato per anni – e più forte negli ultimi mesi precedenti all’avvio del campionato – somiglia sempre più a un pezzo di Garinei e Giovannini, dove quelli che ora non si nascondono per pudicizia, cercando di mettere un proprio piccolo cappello alla vittoria, tentano di usare la carta del “Epperò ci ho messo la faccia” – una mossa da commedia musicale, per l’appunto, che ricorda l’Umberto Bossi dei primi anni 90 e l’assegno sciorinato con la mano per restituire agli inquirenti il presunto maltolto – con una interpretazione della vita reale e delle responsabilità degna di un episodio dei Looney Tunes, dove i massi volano al contrario, gli animali vincono la gravità con la forza della simpatia e alla fine basta un that’s all folk per chiudere.

Possiamo serenamente affermare che tutto quanto è stato sostenuto dai più, negli scorsi anni, più che falso sia semplicemente sciocco. Perché è da sciocchi non capire l’unico insegnamento del calcio – ossia che esso è un gioco. E che, come in tutti i giochi, c’è relativamente poco che un singolo, persino un gruppo o una intera programmazione possano fare oltre quel poco che gli è dato di influire sul reale. La realtà è puro caos e tutto quanto una squadra può fare è cercare di rimanere a galla lì su il più possibile, aspettando l’occasione che capiti (cosa che mi pare fosse anche stata detta da un ex panzone spagnolo in panchina, ma che ci vuoi fare). La cronaca, poi, ricorda un altro assunto dimenticato dalla cortigianeria, ossia che in nessun gioco che non abbia una tara di base (a volte dolosa) può vincere sempre la stessa squadra. Non a caso gli anglosassoni chiamano quel tipo di partite fixed.

Poiché lasciamo agli attori in gioco l’ardito compito di barcamenarsi in questa tragedia della vittoria del Napoli per spiegare i fantasmi delle proprie posizioni passate, vogliamo qui solo dire che era stato tutto già detto. Era stato tutto già descritto. Non certo da noi, ma da millenni di storia, se solo uno se la leggesse.

Duemila e rotti anni fa, un popolo interessante, fatto di lenti pastori che abitavano dalle parti delle coste greche, le stesse dove oggigiorno generalmente ci si fanno selfie sulla spiaggia d’agosto con la birreria esotica in mano, rifletté a lungo su una evidenza umana interessante: le persone – tutte, indistintamente e nei momenti meno prevedibili – impazzivano. Uscivano fuori chiave. Deliravano. Capitava, tanto per fare un innocuo esempio, che un magistrato, rinomato e affermato nel suo campo, durante un seminario, potesse essere invaso da un demone interiore e parlare un linguaggio inatteso, vibrante, pericoloso. Quel popolo si interessò molto al tema e sviluppò una intera mitologia a riguardo, dedicando a questo potente delirio un dio speciale, d’origine per metà umana e per metà divina, di nome Dioniso (tutto questo assai prima che i cristiani rubassero l’idea e ci piazzassero sopra il loro mito, con una astuta mossa di marketing chiamata “religione monoteista”).

Dioniso era lo Straniero, per eccellenza. Visitava le città e portava casini inenarrabili. Non si riuscì mai a capire bene da dove provenisse, né che idea volesse propagandare. Dioniso era il dio dell’impensabile, dei tralci di vite, della distanza che, da quando ha messo piede sulla terra, l’uomo pone tra se stesso e la realtà. Insomma, quel popolo capì che gli uomini amano drogarsi, perché la realtà è scadente (per dirla con le parole di un recente film di successo) e l’intossicazione aiuta a alleviare paure e dolori e a essere “altro”. E alle droghe e alle sue iniziazioni intitolarono un dio.

Ora, se si ha un minimo di senso di analisi, è ovvio definire il tifo sportivo una droga. Una droga nota, meravigliosa, a tratti necessaria, ma pur sempre una droga, che per strani motivi viene definita sana e aggregante a differenza di altre che vengono ritenute perniciose e orrende (ma qui si aprirebbe un capitolo troppo vasto). Il motivo per cui alle droghe fu intitolato un dio, duemila anni fa, fu che quei caprai dell’Ellade si accorsero subito che per drogarsi bisognava essere iniziati, ovvero che quella intossicazione non era roba per tutti e che, a renderla apertamente accessibile a chi ne avesse fatto semplice richiesta, si sarebbe visto crollare il mondo. Per questo motivo a quel dio intitolarono la forma d’arte più alta e circoscritta della nostra storia umana – la Tragedia – che essi inventarono, svilupparono, resero immortale e poi distrussero per sempre, a eterno monito.

Ora, pare che in Italia torni di moda, a cadenza fissa, il tema sull’utilità del Liceo Classico. Non ho risposte a riguardo, essendo la discussione costruita a uso e consumo dell’inutilità da Belpaese. Quantomeno, tuttavia, mentre si decide se chiudere o meno le classi di latino e greco, approfittiamo per leggere quanto già era stato trattato mille e uno volte in passato e può trovarsi in qualunque libro di scuola superiore. La corsa del Napoli è, ad ogni giornata di più, la fine della Tragedia classica come fu scritta da Euripide nel suo capolavoro assoluto delle Baccanti e come fu trattata da Nietzsche nel celebre “La nascita della tragedia”: il Napoli di oggi non è più dionisiaco, il suo stadio non ha niente a che vedere con quello dell’87, i suoi calciatori non sono in nulla simili a quelli del primo scudetto – è tutto diverso, è tutto nato da una forza altra. La fine del dionisiaco, che è poi la fine del tifo calcistico come i tromboni lo desiderano e lo auspicano, come Nietzsche si incaponì a chiamare l’età dell’oro perduta e che mai fu (finendo infatti in manicomio, alla fine dei suoi giorni) è evidente ad ogni passo di Kvaratskhelia, ad ogni piroetta di Lobotka, ad ogni cross di Mario Rui. Ad uccidere la tragedia e Dioniso fu un uomo chiamato Socrate, disse il filosofo tedesco, il prototipo di ciò che sarebbe stato l’uomo dell’Occidente: un signore che fu iniziato alla bellezza del tifo drogante, che studiò e conobbe la raffinata e logica struttura delle leggi e delle gestioni aziendali e seppe trovare il giusto mezzo scegliendo di andare in giro inventandosi improbabili e ammalianti discorsi maieutici al fine ultimo di rompere le scatole al prossimo e ridere di tutto il creato, magari per rimediare l’unica cosa che conta, ovverosia lo spasso (un po’ come lo intendono i tedeschi con spaß, un po’ come la intendevano i latini dal verbo “spalancare”, un po’ come lo usavano i napoletani nel dopoguerra). Insomma, il liceo classico insegna che l’uomo che ammazzò Dioniso e con esso il tifo, andava parlando per la Grecia all’unico fine di rimorchiare. E cotanta è la missione del Napoli di questi giorni.

Ci sia consentito una piccola chiosa. Giacché non siamo certo noi gli artefici degli azzurri più straordinari di sempre, ci sia concesso solo che, in umiltà, a quell’omino socratico noi guardiamo con ammirata simpatia. Se papponisti e tifosi sembrano ormai materiale di ieri, se stampa e intellettuali partenopei appaiono canuti attori di un tempo che fu, insomma se Euripide scrisse migliaia di anni fa del Napoli di De Laurentiis e Nietzsche finisce al Frullone perché non si rende conto di come un georgiano possa conoscere il calcio italiano dal primo minuto di gioco, ci rimane Socrate e il suo desiderio di sfrocoliare la mazzarella.

E noi questo aspiriamo ad essere – Napolisti e, soprattutto, Mazzarellisti.

Forza Ciuccio.

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