A La Verità: «Per far ridere devi sapere con chi hai a che fare, capire le persone, il Paese in cui vivi. Non tutti hanno voglia di stare attenti, e quindi fanno fatica a capire».
La Verità intervista Diego Abatantuono. “Improvvisamente Natale” è il titolo del suo ultimo film, su Amazon Prime. E’ pure in libreria: ha scritto con Giorgio Teruzzi, per Einaudi, “Si potrebbe andare tutti al mio funerale”. Dice che ha perso il conto dei film che ha fatto.
«Faccio fatica a contarli. Alcuni sono passati sia in tv sia al cinema. Per fare un esempio, Il segreto del Sahara, girato in pellicola, era sia per la tv sia per il cinema. Insomma, quando me lo chiedo io rispondo 100 e faccio prima».
Il primo film di Abatantuono risale al 1976.
«Andai ad accompagnare i Gatti di vicolo Miracoli a un provino e il regista, Romolo Guerrieri, mi chiese se volessi fare la parte del balordo in Liberi armati e pericolosi. Dissi di sì, mi domandò se avessi la patente. Non la avevo,
mentii. Poi sul set avrei dovuto fare una sgommata con la macchina e confessai: mi servivano i soldi. Lui capì, e finì bene. Da lì feci parecchie partecipazioni. Fu quello con Monica Vitti, però, il primo film da protagonista».
La Vitti la conobbe sul set, o già vi eravate incontrati?
«Lei aveva sentito parlare di me e venne a vedere un mio spettacolo. Portò anche Steno, il padre dei Vanzina. In quegli anni facevo il cabaret a Milano e in tutta Italia, ma non a Roma. Allora con 2 milioni di lire, che avevo
risparmiato con le serate, affittai un teatrino in piazza Navona e invitai tutti quelli che conoscevo. La prima sera feci il tutto esaurito: Monica, Steno, i Vanzina, Benigni, Troisi, Cochi e Renato e molti altri. Era pieno. Le sere successive non venne nessuno, comunque l’idea funzionò e da quel giorno partì tutto».
Arrivò la fama. Abatantuono spiega:
«In due anni feci 12 film. Avrei dovuto capirlo che erano troppi. Non fui aiutato nelle scelte, ero inesperto. Al contrario del mio agente. Davo molta importanza ai rapporti di amicizia. Comunque per me erano soldi».
Un set dopo l’altro…
«Ero frastornato, non capivo più niente. Ho rischiato di bruciarmi, a un certo punto poi il mercato si satura. Le proposte calavano. Così, decisi di stare fermo un po’. Il personaggio del “terrunciello” inizialmente lo usavo solo per chiudere lo spettacolo, ma talmente era richiesto e talmente funzionava che pian piano ha vinto lui. Poi sono arrivati Pupi Avati, Comencini, Negrin, Salvatores, le belle pellicole».
Abatantuono dice che per far ridere le persone bisogna capirle.
«Per far ridere devi sapere con chi hai a che fare, capire le persone, il Paese in cui vivi. Io ho studiato poco. La mia scuola sono state le serate con Jannacci, Beppe Viola, Dario Fo, Gaber o Felice Andreasi. Ricordo la grande cultura di Lino Toffolo. Stavo attento, ascoltavo e capivo. Non tutti hanno voglia di stare attenti, e quindi fanno fatica a capire. Sono stato fortunato, nel posto giusto al momento giusto».
Parla di San Siro, dell’abbattimento dello stadio del Milan, di cui è grande tifoso.
«Certo che mi dispiacerebbe, a San Siro siamo affezionati. Mi sono un po’ interessato e mi pare di aver capito che ci sarebbe la possibilità di ristrutturare un anello per volta senza far danni ambientali, potendo così salvare e non
abbattere le scuderie, la zona intorno, un posto meraviglioso. Questa cosa dello stadio, in piccolo, è un po’ come quella del ponte sullo stretto di Messina: c’è chi vuole guadagnarci, e non tiene conto di tutti i fattori in gioco».
Contrario al ponte? Abatantuono dice:
«Sono stato in Sicilia, ma soprattutto me ne hanno parlato amici siciliani. Mi dicono che mancano le strade e le ferrovie, che c’è da metter mano a ospedali, scuole, acquedotti. Da 67 anni sento parlare delle disavventure della Reggio Calabria. Bisogna fare una cosa per volta».