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«Per anni gli addetti ai lavori dell’atletica hanno massacrato Mennea per la sua discrezione»

La moglie a Il Giornale. «In un anno si concedeva pochissimi giorni di riposo, il resto era solo fatica. Aveva un suo Dio fatto di laico pragmatismo».

«Per anni gli addetti ai lavori dell’atletica hanno massacrato Mennea per la sua discrezione»
Pietro Mennea

Il Giornale intervista Manuela Olivieri, moglie di Pietro Mennea, morto nel 2013 a 61 anni. Lo racconta.

«In un anno si concedeva pochissimi giorni di riposo. Per il resto era solo fatica quotidiana. Una vita da frate trappista. Con tanto di “diario“ su cui appuntava ogni dettaglio».

Quando incontrò Pietro per la prima volta non sapeva chi fosse.

«E dire che quando incontrai Pietro per la prima volta quasi ignoravo chi fosse. Non ci restò male, anzi capì che la mia attenzione per lui era disinteressata. Anche se qualche giorno dopo mi portò un librone zeppo di articoli e foto su di lui raccolti dal padre e dalla sorella».

Si è parlato spesso del suo «egoismo» ma Mennea era diverso.

«Pietro era il contrario dell’egoismo. Ha fatto tanta beneficenza. È sempre stato generoso e altruista. Virtù che coltivava in silenzio. La sua discrezione è stata male interpretate. Il grande pubblico lo ammirava. Idem per grandi avversari come Borzov e Tommie Smith. Ma ci sono stati anni in cui gli “addetti ai lavori“ del mondo dell’atletica lo hanno massacrato».

Racconta un aneddoto riguardante il marito.

«Mangiava pasta al pomodoro (qualche volta pure pasta al forno), carne e frutta. Una volta lo invitarono a un convegno di esperti alimentaristi. All’inizio lo accolsero tutti con entusiasmo. Alla fine della sua relazione nessuno lo salutò».

Mennea credeva in Dio?

«Aveva certo un suo Dio. Fatto di laico pragmatismo».

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