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L’ossessione dello sportivo professionista è migliorarsi, che sia Meret o un ciclista

Non pensano né al mercato né ai tifosi. La loro vita è dettata da sfide intime, in una talvolta patologica ed estenuante ricerca del miglioramento

L’ossessione dello sportivo professionista è migliorarsi, che sia Meret o un ciclista
Db Genova 29/08/2021 - campionato di calcio serie A / Genoa-Napoli / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Alex Meret

Gli avessero dato la possibilità di argomentare oltre la frasetta di circostanza, Alex Meret avrebbe aggiunto che “il lavoro che paga” è quello che lui tutti i giorni fa in campo, in palestra, magari anche quello su se stesso. A domanda specifica – “per lavoro intende uomini e donne che costruiscono meccanismi complessi e longevi”? – avrebbe forse nicchiato. Non è detto che legga Raniero Virgilio sul Napolista (gli auguriamo di farlo).

Virgilio sottolinea che una banalità – “il calcio è un prodotto ed ha valore in quanto è una merce” – non è poi una tale ovvietà. Perché, scrive,

È tempo di restituire il calcio alla sua realtà primigenia: un prodotto dell’assemblaggio di gioco, storia, intenzioni, associazioni, uomini e donne che costruiscono meccanismi complessi e longevi per cui sono richiesti tanti talenti, numerosissimi uomini di buona volontà e soldi – tanti, come è giusto che sia.

salvandolo dal “cortocircuito mentale inaugurato dal linguaggio politico”, per il quale “siccome il prodotto è venduto a chi sente tale passione, allora coloro che vi lavorano, vi operano e il prodotto lo creano null’altro sono che stipendiati dell’appassionato di cui sopra”.

Siamo d’accordo, anche se è pur vero che la prima istanza (“è una merce”) vale solo se all’equazione aggiungi il compratore. Altrimenti non c’è mercato. Ma tra i due estremi – il lavoro, la mercificazione del prodotto e la passione romantica, “virginale” – tutti dimenticano sempre la vera, “primigenia”, natura del calcio: è uno sport.

E lo sport ha una sua alterità specifica, preventiva rispetto al fascino che trasmette e al consenso che poi ottiene. E’ un prodotto, certo, ma all’origine non economico. Nasce per ossessioni: la fatica, la competizione, il dolore e la felicità, la risoluzione di sfide intime, in una talvolta patologica ed estenuante ricerca del miglioramento personale di riflesso sugli avversari. Che siano i 400 ostacoli, una tappa del Tour de France, una partita di Champions, sotto mille strati di sovrastruttura industriale resta quel magma incandescente. La corsa, l’affanno, la cattiveria, la forza, l’abilità e il talento. La vittoria e la sconfitta. La gioia viva e la delusione tattile.

Il povero Meret l’ha buttata lì, ma se proprio vogliamo giocare a dare un segno ulteriore a quella “banalità” siamo obbligati a restare nel ristretto campo visuale di un atleta: il lavoro è il sacrificio, più che un processo da catena di montaggio in fabbrica. È una condizione necessaria, urgente.  

Il dibattito, persino filosofico, sul ruolo della produzione di un “bene” e del suo contrabbando in “intrattenimento”, è posticcio. Vale se a priori ci rimettiamo al posto nostro, umilmente di lato: osservatori, paganti o no, stakeholder, clienti o appassionati insopportabili e viziati, ma sempre “altri”. Esterni. Superflui forse non più, ma all’inizio sì, eccome.

Meret è il protagonista, e l’abbiamo espropriato del suo ruolo. Nel nome dell’economia di mercato, o del sentimento. Il calcio è uno sport. Altra banalità non più ovvia.

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