Non pensano né al mercato né ai tifosi. La loro vita è dettata da sfide intime, in una talvolta patologica ed estenuante ricerca del miglioramento
Gli avessero dato la possibilità di argomentare oltre la frasetta di circostanza, Alex Meret avrebbe aggiunto che “il lavoro che paga” è quello che lui tutti i giorni fa in campo, in palestra, magari anche quello su se stesso. A domanda specifica – “per lavoro intende uomini e donne che costruiscono meccanismi complessi e longevi”? – avrebbe forse nicchiato. Non è detto che legga Raniero Virgilio sul Napolista (gli auguriamo di farlo).
Virgilio sottolinea che una banalità – “il calcio è un prodotto ed ha valore in quanto è una merce” – non è poi una tale ovvietà. Perché, scrive,
È tempo di restituire il calcio alla sua realtà primigenia: un prodotto dell’assemblaggio di gioco, storia, intenzioni, associazioni, uomini e donne che costruiscono meccanismi complessi e longevi per cui sono richiesti tanti talenti, numerosissimi uomini di buona volontà e soldi – tanti, come è giusto che sia.
salvandolo dal “cortocircuito mentale inaugurato dal linguaggio politico”, per il quale “siccome il prodotto è venduto a chi sente tale passione, allora coloro che vi lavorano, vi operano e il prodotto lo creano null’altro sono che stipendiati dell’appassionato di cui sopra”.
Siamo d’accordo, anche se è pur vero che la prima istanza (“è una merce”) vale solo se all’equazione aggiungi il compratore. Altrimenti non c’è mercato. Ma tra i due estremi – il lavoro, la mercificazione del prodotto e la passione romantica, “virginale” – tutti dimenticano sempre la vera, “primigenia”, natura del calcio: è uno sport.
E lo sport ha una sua alterità specifica, preventiva rispetto al fascino che trasmette e al consenso che poi ottiene. E’ un prodotto, certo, ma all’origine non economico. Nasce per ossessioni: la fatica, la competizione, il dolore e la felicità, la risoluzione di sfide intime, in una talvolta patologica ed estenuante ricerca del miglioramento personale di riflesso sugli avversari. Che siano i 400 ostacoli, una tappa del Tour de France, una partita di Champions, sotto mille strati di sovrastruttura industriale resta quel magma incandescente. La corsa, l’affanno, la cattiveria, la forza, l’abilità e il talento. La vittoria e la sconfitta. La gioia viva e la delusione tattile.
Il povero Meret l’ha buttata lì, ma se proprio vogliamo giocare a dare un segno ulteriore a quella “banalità” siamo obbligati a restare nel ristretto campo visuale di un atleta: il lavoro è il sacrificio, più che un processo da catena di montaggio in fabbrica. È una condizione necessaria, urgente.
Il dibattito, persino filosofico, sul ruolo della produzione di un “bene” e del suo contrabbando in “intrattenimento”, è posticcio. Vale se a priori ci rimettiamo al posto nostro, umilmente di lato: osservatori, paganti o no, stakeholder, clienti o appassionati insopportabili e viziati, ma sempre “altri”. Esterni. Superflui forse non più, ma all’inizio sì, eccome.
Meret è il protagonista, e l’abbiamo espropriato del suo ruolo. Nel nome dell’economia di mercato, o del sentimento. Il calcio è uno sport. Altra banalità non più ovvia.