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«Il lavoro paga»: Meret spiega che il calcio è un prodotto. La passione è un esproprio

C’è chi investe, chi pianifica, chi gioca. E chi vorrebbe far credere che i protagonisti sono stipendiati dai tifosi e a loro devono rendere conto

«Il lavoro paga»: Meret spiega che il calcio è un prodotto. La passione è un esproprio
As Roma 03/09/2022 - campionato di calcio serie A / Lazio-Napoli / foto Antonello Sammarco/Image Sport nella foto: Alex Meret

Uno dei più interessanti corollari della notte di Coppa l’ha coniato Alex Meret, probabilmente in seguito alla consueta domanda sul suo turbolento recente passato di precampionato: “Il lavoro paga”. Suona per certi versi banale, quasi un ovvio refrain da pragmatico friulano, ma contiene una parola che in molti non hanno ancora ben metabolizzato: lavoro.

A quelli che si chiamano, con un interessante definizione ad excludendum, i non addetti ai lavori, non è del tutto chiaro che ciò che abbiamo la fortuna di seguire nei mercoledì di coppa o nei fine settimana è a tutti gli effetti un prodotto. Prodotto in quanto costruito, assemblato, organizzato attraverso la professione – cioè il lavoro – di un nutrito numero di persone che a tal lavoro sono, per l’appunto, addette.

C’è una singolare ritrosia, un pudore virginale che si presenta sui candidi visi di coloro che ascoltano frasi del tipo: “Il calcio è un prodotto”. Esiste una corrente interessante, più vasta e non esclusiva di questo sport, che ritiene tutto quanto sia prodotto, per di più oggetto di scambio – dunque merce – un male irriducibile. È una posizione fintamente ideologica che fa parte di una più ampia scuola di pensiero che attecchisce facilmente dalle nostre parti, potremmo dire tra gli amanti del bel mondo antico, quelli che ritengono l’occidente un mostro corruttore di anime e di solito lo rendono noto al mondo scrivendolo sulle piattaforme software delle più sofisticate multinazionali globali. Ma rimaniamo sul tema. Sì, il calcio è un prodotto ed ha valore in quanto è una merce. È prodotto in quanto frutto di un processo umano, del lavoro di molti, delle professioni di tanti.

Il tifo, ma non solo quello, non digerisce molto questa onesta e banale verità. Le persone si rifiutano di interiorizzare che Space Oddity esiste perché Bowie è stato un mirabile artista ed un enorme uomo di marketing, vendendo in vita centoquaranta milioni di album (per chi non ne ha ancora avuto modo, l’ultimo film su Elvis di Luhrmann potrebbe spiegare l’ovvia evidenza storica, ovvero che senza la bieca e lucrosa determinazione del Colonnello Parker non avremmo avuto il rock’n’roll). Per respingere la realtà, i tifosi introducono il concetto aleatorio di passione: sarebbe questa, la passione, da parte di tanti nei confronti di un unico determinato prodotto, a causare una sorta di esproprio proletario dello stesso. C’è chi investe, chi pianifica, chi compone squadre e chi gioca i novanta minuti sul campo, ma questa lunga trafila professionale viene automaticamente annullata dalla presenza dei sentimenti di chi segue il pallone, di chi gli attribuisce significati, di chi ne trae ricordi.

Di più ancora: in un cortocircuito mentale inaugurato dal linguaggio politico, siccome il prodotto è venduto a chi sente tale passione, allora coloro che vi lavorano, vi operano e il prodotto lo creano null’altro sono che stipendiati dell’appassionato di cui sopra. I giocatori devono dar conto ai tifosi così come i presidenti devono dar conto agli ultras, esattamente come in questi ridicoli contorcimenti mentali i ministri sono dipendenti dei cittadini, e magari David Lynch è un impiegato degli spettatori dell’ultimo cinema di provincia.

Alex Meret rimette al centro il lavoro. Laconico ma puntuale, dopo una serata epica, usa le poche parole che servono e sembrano dire: conta solo la fatica che ci mettiamo e tutto quanto avete goduto è il suo prodotto. Il resto è tanto eppure poco altro. Il resto è mancia.

È tempo di restituire il calcio alla sua realtà primigenia: un prodotto dell’assemblaggio di gioco, storia, intenzioni, associazioni, uomini e donne che costruiscono meccanismi complessi e longevi per cui sono richiesti tanti talenti, numerosissimi uomini di buona volontà e soldi – tanti, come è giusto che sia. È tempo anche di ricondurre il tifo a quanto è, nel cuore della sua natura: un anelito, un desiderio che i paganti possono, in cambio del proprio danaro, coltivare e raccontare. Nel mezzo non c’è alcun rapporto di possesso. Esiste solo uno strato sottile fatto di quella grande avventura psicologica collettiva di cui qualcuno ha parlato alcuni anni fa.

In tempo di ennesime elezioni, verranno in milioni a spiegare e promettere lavoro. Seppur apparentemente scabroso, esiste un tema più profondo che questi milioni non toccheranno: al fianco della disoccupazione reale, esiste una disoccupazione morale. La prima riguarda i tassi che notoriamente economisti e stampa riportano quotidianamente, la seconda è parte di una etica pericolosa che si è costruita negli anni che tende a disconoscere il lavoro e ad equivocarne la funzione. Qualunque cosa accada, solo chi opera produce. Il prodotto è il risultato di questa sua azione – sia esso carne in scatola, un servizio, una prestazione sportiva. Questo lavoro va riconosciuto e tutelato ed appartiene a chi è – appunto – addetto ai lavori. I fruitori non lavorano. Non impiegano nessuno né sono impiegati. Sono spettatori fortunati che pagano il privilegio e, oltre questi novanta minuti, non posseggono nulla. Se non la meravigliosa leggerezza di non possedere nulla, a parte la propria appartenenza al popolino.

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