La mental coach Nicoletta Romanazzi a Il Giornale: «Puoi avere un potenziale pazzesco, ma se la testa va in tilt non porti a casa il risultato»
Su Il Giornale di oggi una lunga intervista a Nicoletta Romanazzi, mental coach di Jacobs ma anche di calciatori come Matìas Vecino e Mattia Perin.
«C’è purtroppo ancora l’idea che se uno va dal mental coach è perché ha un problema o è debole e quindi non è in grado di risolvere le cose da solo. Invece è proprio il contrario. Chi viene da me è coraggioso, ha deciso di guardarsi dentro, mettersi in gioco. E poi si affidano al mental coach anche ragazzi che già ottengono ottimi risultati e che vogliono migliorare le loro performance. Per fortuna ora si comincia a capire quanto il lavoro mentale può essere indispensabile per un atleta. Si lavora sul corpo, sulla tecnica e non sulla mente che può bloccare tutto in un nanosecondo? Puoi essere la persona più talentuosa, puoi avere un potenziale pazzesco ma se la testa va in tilt non porti a casa il risultato».
In cosa è essenziale il lavoro mentale?
«Intanto nessuno ci spiega mai come funziona la nostra mente, come funzionano le emozioni, perché andiamo in tilt prima di una gara o di una performance, che cosa crea uno stato d’animo. Abbiamo idee confuse. Cosi come spesso abbiamo la tendenza a dare la responsabilità all’esterno dei nostri risultati o della nostra vita. E quando facciamo questo, perdiamo completamente il nostro potere personale, siamo sotto scacco. Con l’inevitabile conseguenza che on possiamo più cambiare nulla. Dobbiamo solo sperare di avere la fortuna che le cose vadano meglio e non è detto che sia così… quindi la prima cosa che faccio con le persone, è aiutarle a riprendere in mano la responsabilità della propria vita».
Come?
«Intanto partendo dal fatto che siamo noi a scegliere il significato da dare alle cose che ci accadono. Anche le peggiori. Quando mi chiedono che lavoro faccio, dico la corniciaia, cambio la cornice delle cose. Uso la metafora di immaginare un tavolo con al centro un bel vaso di fiori e intorno al tavolo delle persone che lo disegnano. I disegni saranno tutti diversi, perché le angolature sono differenti. Ed è un po’ quello che bisogna imparare a fare: osservare gli eventi della nostra vita dandogli altri significati rispetto a quelli che siamo portati a dare, magari negativi che ci
creano uno stato d’animo che non dà accesso alle soluzioni».
Nello sport il mental coach è una figura ancora di nicchia.
«In Italia siamo un po’ in ritardo. In America e nel nord Europa è difficile che un atleta non ce l’abbia. Comunque è una figura che comincia a svilupparsi anche in Italia. Ci sono diversi atleti, come Matteo Berrettini, il tennista, e anche qualche squadra di calcio».
Non tutte le squadre di Serie A hanno un mental coach?
«No, io seguo diversi calciatori e alcuni di loro sono anche nella Nazionale italiana, e sono stati spesso in difficoltà a raccontare di avere un mental coach. Temono che il mister o la società possano pensare che abbiano dei problemi e quindi di essere messi da parte perché considerati deboli. Eppure nello sport agonistico non si può non lavorare sulla mente. Prenda l’Italia di Mancini per esempio. Lì a un certo punto si sono bloccati. Era tutto un fatto mentale. Gli atleti quelli sono. Se hanno ottenuto risultati non è che improvvisamente hanno disimparato a giocare a calcio. Succede qualcosa nella testa che non permette di esprimere il proprio potenziale».