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“Colui che ritorna sarà odiato da coloro che sono rimasti”. Napoli, la nostalgia e i ritorni

Il film di Martone tratto dal libro di Ermanno Rea. Nostalgia diversa da quella pasoliniana. Possono esserci ritorni a loro modo felici

“Colui che ritorna sarà odiato da coloro che sono rimasti”. Napoli, la nostalgia e i ritorni

“Questa storia comincia dalla fine”. Così inizia Nostalgia, il libro di Ermanno Rea pubblicato subito dopo la sua morte nel 2016, in una specie di prologo messo tra parentesi dal narratore. Mario Martone ne ha fatto un film, ma non inizia dalla fine. In entrambi i casi, tra l’inizio e la fine, c’è la Sanità, il più derelitto e meraviglioso luogo di Napoli.

Il film si apre con questa frase di Pier Paolo Pasolini: “La conoscenza è nella nostalgia. Chi non si è perso non possiede”. Ed è certamente con questa traccia nostalgica che Pasolini ha parlato a volte di Napoli e dei napoletani come fossero antiche tribù. Anziché vivere nella savana o nel deserto come i Tuareg, vivono nel ventre di una grande città di mare: questa tribù ha deciso di estinguersi, “rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamano la storia, o altrimenti la modernità”, “una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare”. Pasolini riconosce che questa negazione dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente. Allo stesso tempo, si afferma una consolazione quasi morale, perché questo rifiuto “è sacrosanto”: “finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno. Quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati)”.

Rea, in questo, non sembra seguire Pasolini. Felice Lasco, il protagonista di Nostalgia, torna dopo quarantacinque anni alla Sanità profondamente trasformato: ha vissuto prima in Libano e poi in Egitto, girando gran parte dell’Africa. Le vicende sono raccontate quasi come una cronaca attraverso lo sguardo del narratore, Nicola detto Angelino, un cardiologo ateo e comunista che lavora all’ospedale San Gennaro dei Poveri e che diventa molto amico di Felice Lasco, continuando a dare assistenza alla gente del quartiere. Il personaggio è completamente scomparso nel film di Martone.

Dopo quarantacinque anni Felice Lasco rincontra Oreste Spasiano, soprannominato fin da ragazzo Malommo (quasi una condanna o, forse, un presagio, sottolinea Rea), e diventato nel frattempo boss del quartiere. Inseparabili sulla moto e insuperabili nelle scorribande per i vicoli della città, grazie a uno zio che lavora all’estero, Felice Lasco riesce a lasciare Napoli dopo il delitto dello strozzino Gennaro Costagliola compiuto da Malommo durante una rapina in casa. Felice arriva ragazzo e straniero in Africa e torna uomo e straniero a Napoli, ma non vuole estinguersi. È la Nostalgia a tenerlo in vita.

Rea ci ricorda che la parola “nostalgia” nasce dall’abbinamento di due vocaboli della lingua greca classica: “nóstos”, che significa “ritorno”, e “álgos”, che vuol dire “dolore”. La parola compare per la prima volta in una tesi di laurea in medicina discussa all’Università di Basilea da Johannes Hofer nel lontano 1688: era considerata una malattia e indicava il dolore causato dalla lontananza e dal desiderio del ritorno a casa. (La ricostruzione della storia della nostalgia si ritrova in un libro di Jean Starobinski).

Nella letteratura antica è soprattutto il dolore imputabile alle difficoltà del viaggio di ritorno al proprio luogo di origine a muovere le vicende narrate, per questa ragione Rea fa scrivere a Felice Lasco questa lettera alla compagna che lo aspetta al Cairo: “tornare non è facile, anche se la nostra cultura celebra con fanatismo e, secondo me, con ipocrisia il Ritorno, che la grande letteratura ha sacralizzato fino a farne un archetipo. Ma la vita non si lascia catturare dai miti, anzi li schifa, li smentisce, li umilia, e siamo noi a reintegrarli di continuo, per forza d’inerzia, nel nostro repertorio mentale e sentimentale. Prendi me, Arlette. Mi sento anch’io uno sprovveduto restauratore di miti. Perché, pur essendo consapevole che in natura non si dà ritorno felice, indenne da pentimenti, tuttavia lo sogno e lo perseguo con impetuosa foga”.

Malgrado questa consapevolezza, Felice Lasco sente tutto il peso del suo cambiamento individuale e il desiderio smisurato di un ritorno felice, sembra che ci sia una possibilità di riunire i vari pezzi di sé persino grazie alla trasformazione del rione. L’andamento narrativo del libro di Rea si fa a un certo punto anche cronaca politica delle vicende della Sanità degli ultimi tempi e del suo riscatto sociale attraverso lo sguardo dei personaggi costruiti a partire da figure realmente esistenti. È il caso di don Luigi Rega, personaggio basato interamente sulla figura del parroco don Antonio Loffredo, recentemente riconfermato per il terzo mandato a Santa Maria della Sanità. In un’intervista di poco tempo fa, il parroco ha affermato che crede nella triplice collaborazione tra Stato, privati e società civile, quel terzo settore che dà la libertà di creare un’economia reale per offrire risposte concrete a territori abbandonati completamente dalle istituzioni. Quando arrivò alla Sanità, tutte le dieci chiese della zona erano chiuse, oggi invece le luci sono accese anche di notte e illuminano doposcuola, laboratori teatrali, gallerie, studi musicali, orchestre giovanili, palestre: “O impariamo a fare comunità o nessun progetto è sostenibile. Noi siamo figli di Antonio Genovesi, non di Hobbes”.

Nel suo libro Rea richiama un’altra grande figura storica del rione, questa volta con il suo vero nome, Rashid Kemali, soprannominato Papà Kemali, il militante del partito comunista di origine libica che ha lottato insieme ai poveri e ai disperati della zona, cercando di cambiare le condizioni dei lavoratori, in particolare del comparto di pelletteria, tanto da guadagnarsi il famoso appellativo edoardiano di Sindaco del rione Sanità. Un qualsiasi sindaco o governatore di questo paese dovrebbe iniziare esattamente da qui.

Questa cronaca solo in parte sopravvive nel film di Martone, il regista si concentra sulla dinamica tra Felice Lasco e Oreste Spasiano, e sul senso di un ritorno che passa necessariamente attraverso questo rapporto. Nella lettera ad Arlette, Felice, senza nominarla, rende fisica la sua nostalgia e disperato il suo desiderio di Napoli: “Forse è stata la vita – il mio vissuto – a rendermi un uomo doppio, con due facce, contraddittorio e lacerato. Ora, io so che colui che ritorna alla fine sarà odiato da coloro che sono rimasti, sarà soprannominato lo Straniero, sarà oggetto di esclusioni e dicerie. E so anche che ciascuno farebbe bene a proseguire in avanti il suo cammino, evitando di girare il capo all’indietro. So tutto questo, ma serve a poco. Perché, quando sarà il momento, io voglio morire in quella casa bianca che ti ho detto, e farò di tutto affinché questo avvenga. Di tutto, Arlette, mi intendi?”.

Qui, e in tanti altri passaggi narrativi, sono compendiate tutte le diverse accezioni della nostalgia, Eugenio Borgna ci ricorda che ce ne sono infinite forme. “Si ha nostalgia dell’infanzia che si è vissuta, e continua a vivere arcana e segreta nella memoria. Si ha nostalgia di una persona amata che ora, lontana o scomparsa, non c’è più; si ha nostalgia di una casa che si è lasciata, e che piena di ricordi continua ad accompagnarci nel nostro cammino con le sue penombre, e con i suoi bagliori, con gli sciami di emozioni perdute e invano ricercate, e c’è una nostalgia ancora più dolorosa: quella che porta alla malattia, alla depressione, che è malattia dell’anima e del corpo. Si ha nostalgia della musica, dei paesaggi vissuti, delle montagne incantate, che si continuano a vedere nella loro immobile lontananza, e non si possono più raggiungere, e delle alte maree che hanno divorato i nostri sguardi, e ci hanno immersi nel silenzio e nello stupore del cuore. Si ha nostalgia dei luoghi che hanno visto fiorire la nostra adolescenza e la nostra giovinezza, le nostre speranze, e si sono perduti, e che continuano nondimeno a sopravvivere intatti e luminosi nella memoria ferita talora dal destino. Si ha nostalgia di esperienze vissute che nutrivano la nostra anima, e si sono inaridite, sono divenute braci, benché non si spengano mai, e si possano misteriosamente riaccendere”. E soprattutto, e qui è il cuore pulsante della nostalgia di Felice, “si ha nostalgia della patria perduta, nella quale siamo nati, e siamo vissuti, e dalla quale ci siamo allontanati, o dalla quale siamo stati indotti ad allontanarci, come oggi sempre più di frequente avviene, da terre lontane devastate dalla violenza, e dalla morte.”

Sin dai tempi greci, quando fondarono Neapolis creando le prime necropoli, e con continuità in età paleocristiana, l’area compresa tra la collina di Capodimonte e le mura della città dove oggi si situa via Foria ebbe una destinazione sepolcrale, “con la conseguenza di trasformare nell’area il ricordo dei morti in una sorta di ossessione collettiva, in una forma di religiosità venata di pagana follia”. La sua morfologia non è cambiata in modo particolare, perciò “la bellezza dei luoghi è un carattere primordiale della valle della Sanità, consegnata all’uomo come un destino” (Italo Ferraro). È questo destino che Felice sente addosso come una seconda pelle. Rea ci ricorda che la Sanità ha forma di cuore e ha la punta rivolta in basso laddove i Vergini si biforcano in due strade, una che va a San Gennaro e l’altra che sale la collina “come una biscia lunga e sottile”. Questo cuore è attraversato da vicoli e vicoletti tra i quali un budello, chiamato vico Carrette, asse di collegamento tra via Cristallini e via Antesaecula, i due lati del triangolo. Felice e Oreste abitavano esattamente al centro di questo budello: “A quell’epoca Felice Lasco neppure immaginava che esistesse la Storia, che il passato avesse un senso e dominasse il presente e lo stesso futuro o, quanto meno, li condizionasse. Lo scoprirà tornando a Napoli dopo quarantacinque anni di assenza. E se ne farà un’ossessione”.

Martone riporta sullo schermo questa ossessione, e la moltiplica attraverso la potenza visiva del mezzo in diverse occasioni. Ad esempio, Felice Lasco si compra la stessa moto che aveva da ragazzo, è il primo sorriso aperto che vediamo su un volto e che scioglie la sua faccia fino a quel momento contrita, risalendo quei vicoli che scalava da giovane e “riscoprendone la topografia rimasta intatta come storia e natura l’avevano fatta, con le sue cupe, i suoi cavoni, le sue ’mbrecciate, vere e proprie strade-torrenti spesso incassate tra pareti a picco”. Le sequenze alternate tra passato e presente sono superbe, la capacità narrativa filmica rende ricordo e vissuto, dimensione soggettiva e apertura scenica così contigue che sembrano potersi scambiare definitivamente. È la forza del cinema, la forza del cinema di Martone. La nostalgia in quel momento è così intensa che pare avere il potere di riportare in vita il passato.

Questo ci riporta all’incontro tra Felice Lasco e Malommo, un incontro atteso per quarantacinque anni e che forse restituisce in modo immediato i destini possibili di una città, partendo dal rimpianto e appunto dalla nostalgia. Nostalgia e rimpianto vivono entrambe nel passato. Si rimpiange qualcosa o qualcuno che ha assegnato un certo senso alla propria vita, Malommo rimpiange Felice che non c’è e non ci sarà mai più: “m’e lassato sule, Feli’. Ti sei comportato come un perfetto vigliacco, cancellandomi dal cuore perfino quando ti eri messo al sicuro: neppure una cartolina o una telefonata. Ormai ti facevo schifo, eh? Basta! Nun ce so’ santi: te n’e a i’! (te ne devi andare!)”. Martone gli fa versare qualche lacrima, Malommo è pietrificato in un eterno passato, come un ipogeo che scende sottoterra dalla Sanità raggiungendo le viscere della terra.

Nella nostalgia, e magnificamente nello sguardo di Felice Lasco, le increspature del passato possono rivivere e influenzare il presente trasformandolo in modo radicale. In un’altra lettera ad Arlette, Felice Lasco non nasconde le difficoltà del ritorno, “in principio, il ritorno è del tutto privo di dolcezza”: “ma una mattina ti svegli e dici: questa strada tortuosa e stretta sono io; questo vociare irato, questo profumo, questo lezzo sono ancora io; e sono anche questo sporco e rugoso volto di vecchia che mi osserva torva; sono questo raggio di sole che lambisce neghittoso quella finestra al terzo piano con le persiane sgangherate. Io sono insomma tutto il bene e tutto il male della Sanità, perché nessuno può sfuggire alle proprie contraddizioni. Può soltanto lottare, di volta in volta, per superarle”.

Nel libro, come nel film, la Sanità schiude diverse vie del ritorno alla Storia, e solo queste vie sono percorribili per cercare di superare le difficoltà ed evitare l’estinzione: la più radicale è quella della nostalgia, dobbiamo schifare i miti e scegliere un ritorno felice sulla via tracciata da don Antonio Loffredo o dalla laica fatica di Rashid Kemali. Felice, a modo suo, ci è riuscito.

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