Dopo Napoli-Milan, un papà riflette sulle proprie responsabilità. Ma il figlio, mentre continuava a fare i calcoli sulle prossime giornate, lo ha rasserenato
Nell’estate del 2008 diventai papà per la prima volta. Era la pausa del primo campionato in A del Napoli di De Laurentiis (ho sempre considerato l’estate un interludio fra una stagione calcistica e l’altra): quello dei 50 punti, con Reja in panchina, quando ci esaltavamo fra una serpentina di Lavezzi e i gol del Panterone Zalayeta, senza dimenticare la cresta dell’allora diciannovenne Hamsik. Non sapevo ancora che tipo di padre sarei stato, ma una cosa la sapevo: mio figlio avrebbe tifato Napoli. Missione impossibile, dato che vivevamo e viviamo a Verona e che, presto o tardi, avrebbe sentito i rintocchi del campanilismo scaligero o scoperto le maglie a strisce.
Iniziò così per lui un periodo educazione sentimentale finalizzato a forgiare un futuro, perfetto tifoso del Napoli. Giocavamo con le macchinine? Quella azzurra arrivava sempre prima. Guardavamo Il trenino Thomas perché la locomotiva protagonista era dello stesso colore della maglia del Napoli, e se in TV c’erano invece i Dalton (detenuti che indossano una tuta a strisce gialle e nere) io toglievo il colore al televisore, per abituarlo all’idea che i ladri vestono sempre in bianco e nero. Mio figlio è cresciuto scoprendo l’urlo di Auriemma «si gonfia la reteee!» prima della verità su Babbo Natale; imparando a memoria il famosissimo brano “Matador Cavani” dei Chiattoni Animati prima ancora delle poesie per la Santa Pasqua. Mi ha messo in difficoltà una mattina che la sua maestra di asilo voleva sapere da me come facesse la canzone del “coniglio bianconero” e ho dovuto mentire, dicendo che me l’ero inventata sul momento e non la ricordavo. E una sera, poiché al semaforo davanti al Palazzo Bauli un cornuto era passato con il rosso e mi era scappato un “kitemmuorto”, lui candidamente mi ha chiesto: «Che, papà: c’era Insigne?»
Ecco.
Ieri, dopo l’ennesima delusione, dopo l’ennesima partita della vita in cui ce la siamo fatta nelle mutande (mi ci metto anche io, quantunque non sia sceso in campo)… ieri, mentre lui era incazzato come solo un quasi quattordicenne sa esserlo e però (anima mia) continuava a fare strani calcoli del tipo “se però il Milan perde domenica prossima e noi…”, io ieri mio figlio me lo sono abbracciato. L’ho stretto forte al petto, e gli ho chiesto scusa per averlo costretto a tifare Napoli.
Lui si è staccato subito (sempre un adolescente è) ma mi ha guardato con quegli occhi verdi come la giovane età che lo contraddistingue. E mi ha detto: «Papà, è stato il tuo modo per dirmi che la vita è una guerra. Forza Napoli Sempre!»
È stata una grande lezione di vita, quella che io avrei dovuto spiegare a lui. E, forse, non ho vissuto invano.
PS. vorrei dire a tutte le mamme lettrici, prima che mi additino quale genitore infame, che ho imparato dai miei errori e, fortunatamente, gli altri due figli giocano a tennis…