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Deborah Compagnoni: «Con gli infortuni impari a conoscerti di più, a trattarti meglio, a coltivare la pazienza» 

Al CorSera: «Feci lo spot per un reggiseno e la Herzigova si lamentò per le sportive bruttarelle che le facevano concorrenza: le dissi di non prendersela e la invitai in montagna»

Deborah Compagnoni: «Con gli infortuni impari a conoscerti di più, a trattarti meglio, a coltivare la pazienza» 

Sul Corriere della Sera una lunga intervista a Deborah Compagnoni. L’ex sciatrice alpina oggi ha 51 anni: è stata la prima atleta nella storia dello sci ad aver vinto una medaglia d’oro in tre diverse edizioni dei Giochi olimpici invernali, tra le più vittoriose sciatrici italiane con tre medaglie d’oro iridate e una Coppa del Mondo di slalom gigante. Racconta che da ragazza si iscriveva ad ogni gara. Era prima dell’infortunio del 1988.

«La prima medaglia, al Mondiale junior ’86, l’ho vinta in discesa libera. All’epoca non ci stavo troppo a pensare: mi piaceva tutto, avevo voglia di sciare, mi iscrivevo a ogni gara e in squadra non si stava tanto a sottilizzare. Oggi si specializzano subito. Nel 1988 mi sono rotta il ginocchio sinistro e da lì in poi sono stata costretta a scegliere. La disciplina in cui mi trovavo più a mio agio è il gigante: è il raggio di curva che normalmente fai anche nello sci libero, lo stile più naturale».

Senza infortuni avrebbe vinto di più, ma gli stop le sono serviti a conoscersi meglio.

«Impari a conoscerti di più, a trattarti meglio, a coltivare la pazienza. È un lavoro di testa. Io durante gli infortuni ho sempre fatto tante cose, anche dipinto».

Il ginocchio sinistro se lo ruppe all’Olimpiade di Albertville ’92, il giorno dopo aver vinto l’oro in superG. Nella diretta si sentì il suo urlo di dolore.

«Ho capito subito che non era un infortunio banale. C’è l’urlo di Tardelli per il gol al Mondiale che ha dato gioia agli italiani e poi c’è il mio…».

Sulle sciatrici italiane: Sofia Goggia, Federica Brignone e Marta Bassino:

«Di Sofia mi piace l’istinto, il fatto che non faccia calcoli: scende di pancia, anch’io ero un po’ fatta così. Federica è l’unica polivalente e ha una bella caratteristica che condividiamo: riesce sempre a riprendersi senza farsi abbattere, questione di carattere. Marta ha alti e bassi però in gigante la sua tecnica è sopraffina: bellissima da vedere. Mi piacciono perché hanno una loro umanità, non sono solo macchine da guerra».

Lei e Tomba sono stati i simboli dell’Italia che negli Anni 90 si dava appuntamento davanti alla tv per fare il tifo.

«I social non esistevano, i telefonini neppure, c’era un unico canale, in chiaro, che trasmetteva le gare. La notizia nasceva nel momento in cui io e Alberto tagliavamo il traguardo e noi eravamo disposti a raccontarci lì, in tv, con i piedi ancora nella neve, dentro gli scarponi, non era possibile cercarci su Google. Tifavano per noi anche i non sciatori, io e Alberto ci mettevamo i risultati e la costanza: eravamo diventati una certezza, una garanzia, quasi due amici fedeli per gli appassionati».

La Compagnoni posò per una campagna pubblicitaria per un reggiseno: se ne vendettero 10mila pezzi in una settimana.

«In una vita scandita dai ritmi dell’atleta, concedermi quell’escursione era stato come ossigenarmi i polmoni. Mi sono buttata, divertendomi. A quei tempi una famosissima top model, Eva Herzigova, era testimonial di un reggiseno concorrente. Un giorno, in un’intervista, si lamentò di certe sportive bruttarelle che le facevano concorrenza. Le risposi con un sorriso dalla copertina dell’Espresso: non te la prendere, Eva, anzi se vieni su in montagna ti insegno a sciare…».

Le chiedono quale sia stata l’emozione più forte tra quelle provate in anni di gare. «Gli ori sono tutti belli uguali», dice, ma molti non è riuscita neanche a goderseli.

«In Giappone ero più adulta, matura, consapevole. Dopo aver vinto l’argento in slalom corsi il gigante rilassata, come chi non ha proprio nulla da perdere. Oro. Forse la medaglia che mi sono goduta di più. È stata anche la mia ultima vittoria in carriera»

Cosa aspetta a scrivere un libro? Lo fanno tutti dice.

«Ma perché scrivere un libro, poi? Per raccontare per l’ennesima volta le cose che tutti sanno?».

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