Sacchi: «I grandi campioni di solito rompono lo spogliatoio. Non si mettono in discussione»

A Il Fatto Quotidiano: «Il calcio italiano è in difficoltà per colpa di dirigenti che non amano e non conoscono il calcio. Sono presuntuosi e arroganti».  

Sacchi

foto Andrea Rigano'/Image Sport

Per la rubrica “Maestri di Sport”, Il Fatto Quotidiano intervista Arrigo Sacchi.

«Una vicina di casa aveva il televisore e durante il mondiale del 1954 andavo da lei a vedere le immagini dell’Ungheria. Poi mi sarei appassionato anche del Brasile e del Real Madrid. Mi piacevano le squadre straniere perché mi davano emozioni e mi divertivano. Quelle italiane no, il calcio è il riflesso della cultura di un Paese e della sua storia e in Italia avevano trasformato questo sport, inventato come un gioco di squadra e offensivo, in uno individuale e difensivo».

Il sogno di giocare a pallone da calciatore professionista si infranse subito, quando aveva 19, in Quarta Serie.

Una volta diventato allenatore, racconta, ha sempre seguito il lavoro degli altri, come Radice, Bersellini, Marchioro e Vinicio.

«Ero una spugna che assorbiva tutto senza rubare niente. Visionavo e miglioravo: ho sempre avuto la certezza che si potesse fare di più e meglio. Un’attitudine che mi costerà molto a livello di stress. Quando smisi di allenare andai dallo psicologo che conosceva quello che avevo fatto nel calcio e mi disse: guardi che non è normale quello che lei ha fatto in tanti anni di panchina».

Nel 1978 si iscrisse al Supercorso di Coverciano. Lì incontrò Zeman.

«A Coverciano io e Zeman eravamo gli unici presenti a tutte le lezioni, gli altri erano ex calciatori come Salvadore, Puja, Cereser, Stacchini, Mondonico – con cui mi divertivo a giocare a tennis – e pensavano di sapere già tutto del pallone perché per loro il calcio rimaneva sempre uguale a stesso».

Non ha mai amato allenare grandi campioni. Una cosa che aveva già detto al Festival dello Sport, qualche mese fa.

«Io ho sempre allenato la squadra non un singolo. Non guardavo i piedi ma le persone. In principio fui costretto a fare così per via dei giocatori che mi davano. Zoratto e Walter Bianchi me li sono portati con me perché li stimavo soprattutto come uomini. A Parma invece avevo due calciatori che parlavano in continuazione di soldi. E allora meglio rimanere amici e andare ognuno per la propria strada. L’avidità toglie creatività e generosità».

Le piaceva avere a disposizione calciatori già campioni?
«No, perché generalmente rompono lo spogliatoio. Anche quelli intelligenti se hanno ottenuto successo in un certo modo difficilmente riescono a mettersi in discussione».
In che stato di salute si trova il calcio italiano?

«È in difficoltà per colpa di dirigenti che purtroppo non amano e non conoscono il calcio e sono pieni di presunzione e arroganza. Va ricordato che prima viene la squadra del singolo e prima di tutto la società. Io sono stato molto fortunato nella mia carriera perché ho incontrato sempre dirigenti con pazienza e intelligenza».

Come si gioca oggi in Serie A?

«Una volta in Italia la partita viveva di pochi episodi e si perdeva a causa di un soffio di vento. Oggi è diverso, soprattutto per merito delle squadre piccole che hanno coraggio di giocare al calcio, riducendo il tatticismo al minimo. Fa specie che questo lo dovrebbero fare le big, eppure spesso se lo dimenticano…».

 

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