Al di là delle dichiarazioni di amore, i calciatori azienda rispondono esclusivamente alla logica della massimizzazione del profitto. Proprio come le aziende vere e proprie
Ispirato da una suggestione calcistica (dal calcio parlato, per essere più precisi), l’argomento di queste righe sarà l’attuale (con)fusione vigente tra la forma mentis umana e quella aziendale.
Oltre che “stelle”, “miti”… oggigiorno i grandi campioni sportivi – particolarmente i grandissimi – sono di fatto delle aziende. In quanto élite del nostro mondo, essi accedono per primi a quella singolare (inquietante) metamorfosi antropologica denominata brandizzazione: l’ascensione dell’essere umano allo status di marchio (brand). A quanto pare, la sola forma di trasfigurazione/spiritualizzazione di cui il nostro tempo è ancora capace. Nella misura in cui è di fatto un’azienda, una stella dello sport tenderà ad agire come tale. Ne segue che, verosimilmente, osservando il modo in cui si comporta un essere umano brandizzato, potremo comprendere qualcosa in più circa il modo in cui si muove un’azienda vera e propria.
All’indomani della chiusura dell’ultima sessione del calciomercato, al pari di molti “sportivi” ho appreso che Miralem Pjanić, deluso dal proprio trasferimento al Barcellona dove ha trovato pochissime possibilità di impiego (Ronald Koeman “non lo vedeva”), negli ultimi giorni di trattative ha rivolto – a mezzo social network – messaggi di abboccamento/ammiccamento alla Juventus e ai suoi tifosi: la sua ex-squadra, dove gli sarebbe piaciuto tornare. Tuttavia, ancorché forte, chiaro e in fin dei conti sensato, alla prova dei fatti questo desiderio si è rivelato un sogno irrealizzabile.
Appresa la notizia, al pari di molti “sportivi” mi sono chiesto il perché di un simile esito. Per quale motivo Pjanić non sarebbe potuto tornare dove ha giocato le sue migliori stagioni, per di più ritrovando lo stesso allenatore? Quello che lo ha valorizzato maggiormente e che lo avrebbe riaccolto volentieri, tenuto anche conto delle attuali difficoltà tecniche della Juventus? Alla esplicita volontà dell’interessato e alla disponibilità della possibile destinazione, va inoltre aggiunta una terza condizione favorevole: la controparte (il Barcellona) non avrebbe certo issato le barricate per trattenerlo. Dunque, perché il sogno di Pjanić non si è tramutato in realtà? Risposta: perché la Juventus non poteva farsi carico del suo costo gestionale, in particolare dello stipendio che ammonta grosso modo a 8 milioni di euro annui.
A proposito di calciomercato e Barcellona, questa vicenda presenta più di una somiglianza con quella di poco precedente, ma infinitamente più impattante sul piano mediatico, dell’addio di Lionel Messi alla sua squadra del cuore. Anzi, della vita (Barcelona = “més que un club”). Quella che lo ha letteralmente cresciuto, fino a farlo diventare un’icona globale del proprio sport. L’immagine del campione argentino in lacrime, costretto suo malgrado a lasciare la Catalogna per accasarsi nel neo-emirato franco-qatariota di Parigi, è presto assurta a dignità di virale. Anche in quel caso l’infausto esito della vicenda è dipeso dal fatto che la società (quella spagnola, prossima al tracollo finanziario) non avrebbe più potuto farsi carico del suo oneroso ingaggio. La cui precisa entità, a dire il vero, non è semplice da stabilire, ma che comunque si aggirava su non meno di 40-50 milioni di euro annui.
Ebbene, da entrambe le vicende mi pare emerga un elemento comune. Una medesima difficoltà, per la precisione. Di questi tempi capita che le società calcistiche (le squadre-azienda) non riescano a farsi carico degli ingaggi dei loro tesserati più blasonati (i calciatori-azienda). E laddove capiti, non c’è nulla da fare. Nonostante l’esplicita volontà dei calciatori, non si dà alternativa. Il destino, insensibile alle ragioni del cuore, ha la meglio. Come sempre, del resto.
E con ciò giungiamo al punto della questione, che in molti avranno già colto. Se ci si sottrae per qualche momento alle inerzie prodotte dallo storytelling mediatico, a imporsi è una domanda alquanto semplice. Perfino banale, nella sua evidenza. “Davvero non c’era alternativa?”. O non è vero, piuttosto, che un’alternativa esisteva (esiste), ma è diventata talmente desueta agli occhi del nostro senso comune che ormai stentiamo anche solo a intravederla? Questi campioni, questi professionisti, queste aziende – in genere piuttosto floride – non avrebbero potuto scegliere di rinunciare a una parte dei propri introiti, in nome di presunti principi più elevati (le ragioni del cuore), il cui valore quegli stessi brand in carne e ossa sono i primi, almeno in apparenza, a rivendicare fino alle lacrime? Beninteso, non sto parlando affatto di non guadagnare, di “andare in perdita”, ma soltanto di guadagnare meno. Di rinunciare alla massimizzazione del proprio profitto.
Ebbene, non solo le condotte dei diretti interessati ma ancor più quelle di un’opinione pubblica ormai incapace di cogliere la contraddizione radicale tra una dichiarazione d’amore straziante e una condotta che la sconfessa completamente (vedi la nostra naturale empatia con la commozione di Messi o con la frustrazione di Pjanić, il nostro definirli “ostaggi” delle logiche spietate del calcio business), dimostrano a quale livello di naturalizzazione siano pervenute certe dinamiche. Al punto che il nostro senso comune ha trasformato la massimizzazione del profitto in un analogon della forza di gravità: qualcosa di inesorabile, incontrovertibile. Un destino che come tale va semplicemente accettato.
Applicato ai casi di specie, ciò significa che se avessero infranto questo sedicente tabù, accettando di guadagnare meno, i due infelici si sarebbero trovati nella condizione di realizzare il rispettivo “sogno catalano” (andare via dal o restare al Barcellona), avrebbero trasformato in realtà quella possibilità. Possibilità che, subordinata all’imperativo della massimizzazione del profitto, ha invece assunto i contorni eterei del sogno irrealizzabile.
Di qui muove l’analogia con l’universo extra-calcistico, anch’essa facilmente comprensibile a questo punto. Se un uomo-azienda si comporta così, o meglio se tolleriamo senza battere ciglio che si comporti così, perché ci stupiamo che le aziende-aziende (gli amministratori delegati, i consigli di amministrazione) si comportino allo stesso modo? Ovvero, per capirci meglio, che decidano di chiudere uno stabilimento non perché improduttivo, ma perché insediato altrove consentirebbe un guadagno maggiore? Perché altrove permetterebbe di rispettare l’imperativo della massimizzazione del profitto?
Se non abbiamo di che obiettare al pianto di Messi e alla frustrazione di Pjanić, allora a rigor di logica non dovremmo obiettare nulla neppure, ad esempio, alla scelta della multinazionale americana Whirlpool di chiudere il proprio stabilimento di Napoli, “lasciando a spasso” centinaia di lavoratori. Se invece veniamo ancora percorsi da sconforto e indignazione al cospetto della condotta della Whirlpool (di tutte le Whirlpool possibili), allora dovremmo riconoscere che, coerentemente, non possiamo consentirci una pur emotivamente appagante empatia con i dolori del giovane Leo, emigrante coatto nel neo-emirato parigino. Al contrario, dovremmo cominciare a chiedere ai nostri campioni di fare qualche sforzo in più, laddove ambiscano a incarnare anche i nostri modelli. Dovremmo deciderci, una buona volta, a vendere la patente di “eroe” un po’ meno a buon mercato.
Come possiamo sperare di eticizzare il capitalismo (di dotarlo di un volto più umano), se concediamo con tale facilità ai depositari naturali dell’etica – gli esseri umani – di pensare e agire del tutto capitalisticamente, cioè inumanamente? Come fossero davvero soltanto delle aziende? Addirittura come fossero le più ciniche tra le aziende: quelle incapaci di derogare dall’imperativo della massimizzazione del profitto. Continuando a non obiettare nulla al cospetto di esseri umani (per di più esemplari) che agiscono come aziende (inumanamente), non potremo stupirci se prima o poi smetteremo di trovare strano che le aziende (le “aziende-aziende”) si comportino in modo integralmente aziendale (inumano, disumano), secondo le logiche che sarebbero loro proprie.
Personalmente credo che la disintossicazione dal neoliberismo, le prove tecniche di “un altro mondo è possibile” passino anche da queste apparenti inezie. Magari è proprio da questi piccoli esercizi di igiene personale che possono muovere i primi passi.
p.s. appena concluse queste righe, ho appreso che Pjanić si è accasato al Beşiktaş, con la formula del prestito. La società turca pagherà circa 3 milioni di euro all’anno al giocatore, mentre i restanti 5 dovrebbero essergli corrisposti dal Barcellona. Lieto fine? Dati i tempi, c’è da temere che lo sia.
Postilla (excusatio)
Sono consapevole che, specialmente ai lettori del “Napolista”, suonerà strano che un tifoso del Napoli, (quale, in effetti, lo scrivente è) parli di “naturale empatia” nei confronti di un ex-juventino come Pjanić. A mia discolpa, invoco il legittimo diritto alla schizofrenia da tifoso di calcio: quella “totale infermità mentale” a cui si appellava Gigi Proietti, al cospetto del giudice Adolfo Celi, a nome di tutti “i giocatori delle corse dei cavalli” per ottenerne l’assoluzione, nell’intramontabile Febbre da Cavallo. Tanto per essere chiaro, si tratta di quella infermità che consente a moltissimi di noi di giudicare il medesimo Giorgio Chiellini: 1) in quanto giocatore della Juventus, un picchiatore che se non giocasse per quella particolare squadra non finirebbe nemmeno una partita; 2) in quanto capitano della nazionale, un condottiero senza macchia, senza paura e senza età di cui andare orgogliosi.
“Ed è per questo che chiedo la clemenza della corte…”