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Perché Spalletti è una scelta sensata per il Napoli

Per il suo gioco verticale, per il saper adattarsi ai giocatori, per essere in grado di compiere scelte di rottura. Ma la società dovrà proteggerlo

Perché Spalletti è una scelta sensata per il Napoli

Allungare la squadra

C’è un’intervista, rilasciata all’indomani della fine del campionato 2016/17, in cui Luciano Spalletti racconta la sua esperienza (appena terminata) alla Roma dal punto di vista tattico. A un certo punto, dice: «Quest’anno, rispetto alla stagione scorsa, quando sono subentrato a Garcia, abbiamo deciso di allungare di qualche metro la squadra in campo». Allo stesso modo, qualche minuto più tardi, spiega come e perché è passato sia a una difesa “a tre e mezzo”, derogando dal modulo che ama e ha sempre fatto praticare alle sue squadre. Il 4-2-3-1, ovviamente.

Tutto è collegato, anzi tutto è legato all’idea di sfruttare i giocatori che aveva a sua disposizione. In quella Roma, nella fattispecie, c’erano Rūdiger, Manolas, Paredes, Salah, El Shaarawy, Nainggolan, Dzeko. E Spalletti aveva cercato il modo di giocare in verticale – e di coprire bene il campo in fase difensiva – assecondando le caratteristiche della rosa che doveva gestire. Una buona intuizione: la Roma, quell’anno, toccò quota 87 punti e costrinse il Napoli di Sarri (nella sua versione migliore, infatti chiuse il girone di ritorno con 48 punti) al terzo posto, quindi a disputare i preliminari della Champions League 2017/18. Va necessariamente aggiunto che quella fu la stagione dell’addio burrascoso (eufemismo) di Totti, un evento gestito malissimo da tutti e da cui Spalletti uscì con le ossa (mediatiche) rotte. Era inevitabile uscirne sconfitti, ma intanto la Roma arrivò al secondo posto.

L’allenatore Spalletti

Quando si parla di Spalletti, si fa fatica a scindere l’aspetto campo da quello extracampo. Ci siamo appena caduti pure noi, in questa trappola: abbiamo iniziato a parlare del sistema di gioco della Roma 2016/17, ma poi alla fine siamo arrivati a raccontare – molto sommariamente, ovvio – il ritiro di Francesco Totti. In realtà è il personaggio-Spalletti a costringerci a pensare/agire in questo modo. Lui ama vivere in un certo caos, ci sguazza dentro, l’ha fatto anche a Milano con Icardi – ne parleremo – ma nel frattempo cerca e trova soluzioni tattiche per cercare di mettere insieme le sue idee/visioni con il materiale che ha a disposizione.

È sempre stato così, anche quando, tra il 2005 e il 2009, è diventato uno dei tecnici più visionari del calcio italiano, al punto da essere citato da Jonathan Wilson ne La Piramide Rovesciata (una sorta di bibbia della tattica calcistica, edita nel 2008) come un grande innovatore. Ovviamente quel riconoscimento era legato alla sua più grande invenzione/intuizione, alla trasformazione di Totti in prima punta. Cioè, diciamola meglio: in centravanti arretrato/regista offensivo, oltre che in punta letale nei pressi dell’area avversaria.

Anche quella fu una scelta con una doppia faccia: Totti era naturalmente portato a venire a giocare indietro, a legare i reparti, ma intanto erano i suoi compagni (gli esterni e soprattutto il trequartista del 4-2-3-1, Simone Perrotta) ad allungare il campo, a determinare il gioco in verticale. Del resto lo stesso Totti aveva la qualità (di piede e di testa) necessaria per poter assecondare gli inserimenti del già citato Perrotta, ma anche di Mancini, Taddei, ecc. E per fare tantissimi gol.

Un po’ di giocate in verticale di Francesco Totti: oltre i gol, era per queste azioni che Spalletti decise di farlo giocare come centravanti

Ecco, questo (in sintesi estrema) è stato il primo Spalletti-allenatore. O meglio: il risultato delle sue prime esperienze, il tecnico venuto fuori dagli anni di Empoli, di Udine, dall’esperienza totalizzante di Roma. Ma in realtà Spalletti è rimasto lo stesso anche negli ultimi anni, ovviamente con tutte le contaminazioni del caso, e del tempo. Magari il tecnico toscano ha un po’ perso quella spinta da puro innovatore e profondo idealista che aveva quindici anni fa, ma non per questo è diventato meno attento ai dettagli, come mostra e dimostra chiaramente l’intervista con cui abbiamo aperto questo pezzo.

Come dimostra il gioco della sua Roma 2016/17, una squadra camaleontica e difficilissima da affrontare e sconfiggere soprattutto in trasferta, grazie a un gioco misto (possesso ricercato e poi ricerca della verticalità) derivato dalle caratteristiche di una rosa ricca di talento, ma anche di profili dalle caratteristiche varie. Un po’ come il Napoli di oggi.

Un video di analisi tattica della Roma 2016/17

L’esperienza più recente, quella all’Inter, è stata un po’ diversa. Più contraddittoria, più statica dal punto di vista tattico. Per un motivo semplice: la squadra nerazzurra aveva un totem (tecnico ed emotivo) da cui doveva necessariamente prescindere. Parliamo ovviamente di Mauro Icardi, un attaccante letale ma anche molto influente sul gioco delle sue squadre, legato com’è a una serie di movimenti e meccanismi che ripete in maniera ossessiva. Rispetto a Dzeko, Icardi tende a non accorciare quasi mai il campo – pur avendo le qualità tecniche per farlo – ma a tenere occupati i centrali avversari dentro l’area di rigore, o comunque nei pressi dei 16 metri.

Per poter gestire ed esaltare un attaccante del genere, Spalletti ha dovuto fare di necessità virtù. La sua (primissima) Inter era una squadra che provava a risalire il campo con un possesso ragionato e sequenziale, fondato sui due centrali difensivi e sul doble pivote del 4-2-3-1; dopo, cercava di aprirsi sulle fasce o in verticale. Come detto, però, Icardi finiva per ripetere sempre gli stessi movimenti, e quindi rendeva difficile la seconda costruzione in verticale. In virtù di tutto questo, l’Inter era costretta a rifinire l’azione quasi solamente sulle fasce, attraverso cross che, col tempo, sono diventati fin troppo frequenti.

Il passaggio decisivo è quello che trova João Mario tra le linee, che taglia i reparti della Roma. Non è sempre facile trovare corridoi così invitanti.

È così che la prima Inter di Spalletti è diventata una squadra prevedibile, soprattutto nell’inverno 2017/18. Il tecnico toscano, da febbraio in poi, provò a cambiare qualcosa sfruttando l’esplosione di Cancelo e l’arrivo di Rafinha, i nerazzurri si trasformarono in una squadra più liquida, si schieravano con la difesa a tre e mezzo già vista a Roma e con Cancelo esterno a tutta fascia, mentre il nuovo arrivato Rafinha faceva da riferimento tra le linee alle spalle di Icardi. Il centravanti argentino continuava a essere servito soprattutto dagli esterni, ma intanto l’Inter si era modellata in maniera diversa, e proprio grazie a quel cambiamento riuscì a centrare la qualificazione in Champions League con una rosa dai valori non certo esaltanti – la batteria dei centrocampisti era formata da Brozovic, Borja Valero, Gagliardini, Vecino, João Mario.

Nella stagione successiva (2018/19), persi Cancelo e Rafinha, Spalletti decise di tornare indietro e di (provare a) risolvere i problemi di prevedibilità offensiva con un nuovo esterno destro a piede invertito (Politano) e un trequartista di inserimento in grado di agire come seconda punta nominale (Nainggolan). Fu ripristinato così il 4-2-3-1 classicamente inteso, ma quell’Inter pagò la scarsissima condizione fisica di Nainggolan e poi dovette rinunciare – per motivi disciplinari – proprio a Icardi, il giocatore che più di tutti influenzava il suo gioco.

Anche in questo caso così spinoso, però, Spalletti non si è perso d’animo. Anzi, proprio dall’alto della sua tendenza a cercare di adattarsi al meglio alle situazioni., anche quelle più complesse, decise di escludere Icardi – dopo avergli tolto la fascia di capitano – e di inserire Lautaro Martínez come centravanti titolare. Col senno di poi sembra una scelta ovvia, ma la realtà è che allora Martínez era un attaccante ancora tutto da scoprire, dal profilo fisico atipico (è alto 175 centimetri) e quindi più adatto a un ruolo di spalla, di seconda punta, almeno in teoria. Anche grazie a questo cambiamento, l’Inter riuscì a centrare la seconda qualificazione consecutiva alla Champions League, pur soffrendo moltissimo nelle ultime giornate.

Come potrà giocare il Napoli di Spalletti

Siamo arrivati a parlare del presente. Anzi, del futuro. In virtù di tutto quello che abbiamo raccontato, di questo corposo riassunto, possiamo iniziare a immaginare il Napoli che verrà. Non a caso, abbiamo aperto questa nostra analisi parlando di squadre allungate, di gioco verticale e di 4-2-3-1. Ovvero, ciò che ama fare Spalletti e di ciò che serve al Napoli per poter sfruttare il suo giocatore più forte e influente – ovviamente stiamo parlando di Osimhen. Quasi scontato pensare che il nuovo tecnico azzurro possa adattare le sue visioni alla presenza dell’attaccante nigeriano.

In che modo potrà farlo? Mischiando sapientemente i concetti che già conosce, che ha già frequentato in carriera. Osimhen ovviamente non ha la qualità nello stretto e l’intelligenza di Dzeko, ma è anche un attaccante diverso da Icardi, nel senso che sa allungare la squadra e tenere basse le difese avversarie, eppure allo stesso tempo non è statico, si muove in avanti e verso gli esterni, apre il campo in tutte le direzioni possibili. Per innescarlo, dunque, servirà una squadra in grado di muovere la difesa avversaria con la costruzione dal basso, ma non quella insistita e lenta immaginata da Gattuso, piuttosto con passaggi più ambiziosi e verticali tra le linee, soprattutto nella fascia centrale del campo.

È per questo che si parla (giustamente) dell’acquisto di un regista. Di un centrocampista centrale in grado di gestire il pallone ricevendolo dai centrali difensivi, e di smistarlo sul corto e sul lungo senza portarlo troppo. Il riferimento al Pizarro visto alla Roma è immediato, scontato, e infatti il Napoli non ha questo tipo di giocatore in rosa: Fabián Ruiz tende a portare la palla più che a distribuirla, Demme e Lobotka sono precisi soprattutto – se non solo – sul corto, Bakayoko è un giocatore diverso e comunque è destinato a lasciare Napoli.

Il resto del mercato

Un altro punto importante riguarda i laterali, intesi come terzini o come esterni a tutta fascia. In questo momento, il Napoli ha solo Di Lorenzo, non ha altri elementi in grado di risalire le corsie con continuità e dare un buon contributo in avanti – al netto di Ghoulam, ovviamente. Nel gioco di Spalletti si tratta di una figura importante, anzi decisiva, non solo per sfruttare le catene laterali – come avvenuto con Gattuso – ma anche, eventualmente, per guidare lo sviluppo di un gioco di posizione più vario – in questo senso la gestione di Cancelo all’Inter è un esempio perfettamente centrato.

Inevitabile, dunque, che si debba procedere all’acquisto di (almeno) un terzino sinistro che sappia interpretare il ruolo in un certo modo. Si parla di Emerson Palmieri, e in effetti potrebbe essere una scelta sensata. Ovviamente, però, la gestione del mercato dipenderà anche dalle operazioni in uscita, e dalle scelte che Spalletti farà per la costruzione della fase difensiva. La sua Inter e la sua Roma non praticavano un pressing continuo, tendevano a rimanere compatte senza però schiacciarsi troppo; un approccio simile a quello mostrato dal Napoli di Gattuso in questa stagione, certo con le dovute differenze legate alle caratteristiche dei giocatori. Ovvero, gli stessi parametri da cui dipenderanno le decisioni di quest’anno. Per dirla in poche parole: il Napoli di e con Koulibaly deve necessariamente difendere in modo diverso da un Napoli senza Koulibaly. E così via per tutti gli altri giocatori.

Conclusioni

Insomma, è ancora presto per immaginare il Napoli che verrà. Il Napoli di Spalletti. Il passato, però, può darci delle indicazioni. Delle suggestioni. Dal punto di vista tattico, la scelta appare in ogni caso sensata. Per tutti i motivi che abbiamo cercato di contenere in questa analisi. Questi, sintetizzati ancor di più: la predilezione per un calcio verticale ma non improvvisato; l’idea per cui è possibile – anzi: è doveroso – derogare dalle scelte iniziali per assecondare il contesto mutevole di una partita, di una stagione; la capacità di gestire situazioni delicate continuando a sperimentare, a portare avanti un tentativo di migliorare la squadra sul campo. Anzi, più che migliorare il termine adatto è un altro: progredire. Il progresso, come d’altronde insegna la storia dell’essere umano, è un processo evolutivo complicato e difficile, ma porta sempre – e in ogni caso – ai migliori risultati possibili.

Al Napoli 2020/21 sarebbe servita proprio questa capacità di mutare progredendo e di progredire mutando. Di farlo restando solido. Gattuso, in questo, ha peccato di inesperienza. Forse gli ha fatto difetto anche un po’ di coraggio. Da questo punto di vista, Spalletti possiede la personalità – derivata dalla sua storia personale – per imporre il cambiamento. Per gestire i malumori che ne deriveranno. E per dare al Napoli la sicurezza di essere una grande squadra, non solo una aspirante grande squadra, anche se si deciderà che alcuni o tutti gli elementi debbano abbandonare la loro comfort zone.

Spalletti ha gli strumenti e il carisma per prendere in carico tutto questo, partendo dal campo. Ma dovrà essere sostenuto dalla società, soprattutto quando farà scelte di rottura. Perché ne farà. E allora il Napoli non dovrà ripetere l’errore commesso con Ancelotti: dovrà fidarsi del suo allenatore, nel senso che dovrà affidarsi a lui. Non ad altri. Certo, serviranno i risultati per cementare questa identificazione. Anche da questo punto di vista, però, la carriera del tecnico di Certaldo parla in maniera chiara: raramente fa rendere la sua squadra al di sotto dei suoi reali valori. Spesso la fa andare oltre. Proprio quello che è mancato al Napoli 2020/21.

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