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Gigi Meroni, la farfalla granata che non divenne azzurra

Fiore offrì 450 milioni per lui. Pianelli prima gli disse di sì, poi cambiò idea. Infine quella maledetta serata a Torino

Gigi Meroni, la farfalla granata che non divenne azzurra

Estate del 1966, il secondo anno del Napoli con Sivori e Altafini. Il presidente dei “centomila cuori” Roberto Fiore ha un’idea clamorosa. Prendere Gigi Meroni dal Torino. Due anni prima, il club granata aveva preso Meroni dal Genoa per 350 milioni. Fiore contatta per telefono il presidente granata Orfeo Pianelli: “Vorrei acquistare Meroni”. La risposta di Pianelli: “Fiore non fare voli pindarici. Cederei Meroni solo se un pazzo mi offrisse 500 milioni”. “Quel pazzo sono io e domani vengo a Torino”.

Nel suo libro, Fiore l’ha raccontata per filo e per segno. Va a Torino. Dice a Pianelli: “Prima di Meroni, vorrei trattare un altro giocatore, Orlando”. Il presidente granata gli risponde: “Per Orlando voglio 110 milioni”. Fiore replica: “Te ne darò 80”. Pianelli: “D’accordo, ora chiudiamo per Meroni con i 500 milioni che ti ho chiesto”. “Te ne darò 450” rilancia Fiore. E Pianelli conclude: “Purtroppo devo accettare, non posso rinunciare a un’offerta così allettante”. Aggiunge: “Ti chiedo un acconto di 200 milioni entro 48 ore”.

Ebbi l’impressione, racconta Fiore, che Pianelli si fosse pentito di cedere Meroni. Fiore torna a Napoli. Deve fare i conti con Lauro. Il Comandante gli urla: “Sei un pazzo”. Teme soprattutto che Fiore, con l’acquisto di Meroni, raggiunga una popolarità eccessiva. Fiore fa il giro delle banche e racimola i 200 milioni chiesti subito da Pianelli. Torna a Torino.

Colpo di scena. Pianelli gli racconta che, uscendo dalla sua villa, era stato aggredito da un gruppo di scalmanati che lo avevano minacciato di uccidergli la figlia se avesse ceduto Meroni. Dice a Fiore: “Come ti regoleresti al mio posto? Pendo dalle tue labbra”. E Fiore: “Salverei mia figlia e manderei Fiore a quel paese però cedendogli almeno Orlando a 60 milioni, non più a 80”.

Così, a Napoli arrivò il centravanti romano e Meroni rimase al Torino. Pianelli rifiutò anche l’offerta della Juventus (750 milioni).

Un anno dopo. È domenica 15 ottobre 1967. Il Torino batte la Sampdoria 4-2. Tre gol di Cobin, uno di Moschino. Meroni protagonista del secondo tempo.

È sera. Meroni in compagnia dell’amico Poletti, difensore granata, si dirige verso casa. Abita una mansarda al numero 53 del corso Re Umberto, un vialone alberato a due corsie. Nella mansarda, piena dei quadri che dipinge di notte, vive con Cristiana Uderstadt, figlia di giostrai, il suo grande amore.

Meroni non ha le chiavi di casa. Bussa, ma Cristiana non è nella mansarda. Decide con Poletti di attenderla in strada per entrare in casa. Inganneranno l’attesa andando nel bar di fronte.

Stanno attraversando la prima corsia quando sopraggiunge una Fiat 124 coupé che, operando un sorpasso, li investe. L’auto prende di striscio Poletti e colpisce Meroni alla gamba sinistra sbalzandolo sulla corsia opposta. Qui Meroni cade mentre arriva una Lancia Appia che lo centra in pieno trascinandolo per 50 metri.

Ricoverato all’Ospedale Mauriziano, Gigi Meroni muore alle 22,40 di quella maledetta domenica.

Il mio ricordo appassionato.

Da una primavera incantata sbocciò la primula granata. Gigi Meroni. Di tutti i campioni la meraviglia. Anima chiara del lago di Como, impastato di sole e di mare che aveva visto a Genova, portò nel Torino l’improvvisa allegria, un balsamo di gioia sulla malinconia del grande passato.

Giocava coi fili d’erba, con la sua ombra, con l‘eco di una canzone. S’incantava il pallone intrattenuto e goduto dal ragazzo selvaggio (un capellone con un allegro barbone). Sospesa, la palla aspettava il colpo di pura magìa, la calibrata carezza, la poesia del capellone inventore che le metteva le ali perché volasse all’incrocio dei pali.

Meroni, pittore di gioco, colorava i palloni, pennellava le azioni. Romantico ribelle aveva sulla pelle il numero 7. Sette le rose che regalava ogni giorno alla donna del cuore. Sette le meraviglie del mondo e i mari, sette quel numero sulla schiena che lui rendeva speciale.

Sensazionale quell’ala. Una bruna piroetta, un danzatore, un folletto di quelli mai visti. Lo guardava stupito il vecchio paròn Rocco Nereo di Trieste allenatore del Toro. Giocatore al vetriolo, farfalla leggera, capinera granata.

Una domenica sera (era ottobre) finì l’allegria. Fu dopo una partita vinta alla grande. In un viale alberato della vecchia Torino, le foglie d’autunno, il cielo già scuro. Una macchina, due, l’incrocio dei fari, il sorpasso, la frenata tardiva, lo schianto. Sull’asfalto bagnato di sangue un pedone ammazzato.

Era Gigi Meroni.

Aspettava la donna che amava. Non aveva con sé le chiavi di casa, l’attendeva in strada quella sera perversa. Aspettò l’amata, arrivò la morte.

La domenica successiva allo Stadio Comunale era in programma il derby torinese. Da un elicottero in volo sopra lo stadio, una pioggia di fiori. I giocatori di Torino e Juventus li raccolsero per sistemarli sulla fascia del campo dove giocava Meroni.

L’auto Fiat 124 coupé che l’aveva investito era guidata da Attilio Romeo, 19 anni, rampollo di una nota famiglia torinese. Trentatre anni dopo, Attilio Romeo detto Tilli diventa presidente del Torino. Cinque anni complicati che si conclusero col fallimento del club granata escluso dalla serie A. Il Torino, con una nuova denominazione sociale, riprese dalla serie B usufruendo del Lodo Petrucci. Attilio Romeo fu condannato per bancarotta, truffa ai danni della Figc e malversazione. Patteggiò la pena. Due anni e sei mesi di carcere.

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