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Zeman l’uomo del silenzio. Ma quando parlava, erano lingue di fuoco

I carri armati in Cecoslovacchia, Palermo, il Foggia dei miracoli, il calcio all’attacco, poi la guerra al doping, le frecciate con Moggi, la sua fine

Zeman l’uomo del silenzio. Ma quando parlava, erano lingue di fuoco

Venne dall’est, che era il 1966, con un cruccio inspiegabile e un ciuffo biondo mai allegro, gli occhi a fessura cinese. Da un quartiere residenziale sulle rive della Moldova, il padre primario ospedaliero, la madre casalinga, arrivò Zdenek Zeman di Praga, in seguito manipolatore di giocatori sconosciuti, creatore di squadre umili e veloci, insegnante di un catechismo esasperato per andare all’assalto dei ricchi e potenti squadroni. Non parlò mai per esteso: borbottò, mugolò e i suoi discorsi furono lunghi silenzi.

A Praga era stato nuotatore, giocatore di hockey su ghiaccio e pallanuoto, perfino di pallamano. La vita lo portò a Palermo dallo zio Cestmir Vycpalek, giocatore di una stagione alla Juve (1946-47), poi cinque anni nel Palermo, che non riuscì ad insegnargli la prudenza e il gioco accorto in difesa.

Zdenek amò il mare, ma non ebbe l’animo aperto dei marinai e, sulla spiaggia di Mondello, misurò i suoi silenzi col silenzio del mare Mediterraneo. A Palermo rimase dopo che i carri-armati russi invasero la Cecoslovacchia. A 28 anni, nel 1975, prese la cittadinanza italiana. Molto fumò e poco parlò, la persona scolpita nel legno di quercia.

Passò come un solitario scontroso nelle vittorie. Le sconfitte furono esaltanti quanto i successi. Predicò e insegnò un calcio-spettacolo che non realizzò mai del tutto, profeta passeggero a Roma, e la sua gloria rimase circoscritta alle città di Foggia e Pescara dove creò squadre coraggiose sempre affamate di gol.

Al centro del Tavoliere pugliese creò il Foggia dei miracoli (1989) due anni in B, poi il balzo in serie A con un manipolo di ragazzi aizzati all’offesa della porta avversaria. Gli attaccanti furono i suoi gioielli, il napoletanino Ciccio Baiano, il bergamasco Peppe Signori, il torinese Roberto Rambaudi.

Dispensò il suo vangelo offensivo: “Non importa quanti gol prendi se ne fai uno più dell’avversario”. Assicurò: “Per coprire il campo non esiste modulo migliore del 4-3-3”. E rassicurò: “Non conto mai le sigarette che fumo ogni giorno altrimenti mi innervosirei e fumerei di più”.

Sbarcò alla Lazio dove ritrovò Signori e chiamò Rambaudi. La Lazio di Zeman fu un fuoco di artificio: 8-2 alla Fiorentina, 5-1 al Napoli, 4-0 al Milan, 4-1 all’Inter, 3-0 alla Juventus. Migliore attacco della serie A, 69 gol, ma finì 10 punti dietro la Juve pur incassando appena due gol più dei bianconeri. Alla Lazio consacrò Nesta e lanciò Marco Di Vaio e Pavel Nedved. Quando era stato al Messina, aveva lanciato Salvatore Schillaci che disse: “Devo a Zeman se la Juve mi ha chiamato”. Il fumatore silente non finì il terzo anno alla Lazio, esonerato a gennaio.

Dovunque insegnò: “Non importa quanto corri, ma dove corri e perché corri”. Visse stagioni felici e infelici, naufragò a Napoli, riemerse a Salerno, vagò fra Avellino, Lecce, Brescia. Dopo la breve esperienza a Napoli, sei partite, due pareggi e quattro sconfitte nella disperante annata 2000-01 conclusa da Mondonico con la retrocessione, disse: “Ferlaino affermò che il mio ingaggio con preordinata decisione di esonero era stato architettato da Moggi per distruggermi”.

La guerra contro Moggi cominciò quando Lucky Luciano disse: “Zeman è un buon allenatore che purtroppo si distrae e perde l’essenza del calcio”. L’uomo silente parlò: “Se l’essenza del calcio è il doping o il comprare gli arbitri, allora io sono molto lontano da questo”. Quando l’uomo silente parlava, erano parole di fuoco: “Il calcio è finito in farmacia. Servono due persone in un club di calcio: un esperto di farmaci e un altro bravo in matematica che sappia fare quadrare i conti”.

Quando fu alla guida della Roma, un quarto e un quinto posto sempre col migliore attacco, dal 1997 al 1999, dissotterrò altre asce di guerra. “Le esplosioni muscolari di alcuni calciatori sono sbalorditive, cominciate con Vialli e arrivate a Del Piero”. Aggiunse: “Sarò anche un romantico, legato a una concezione del calcio in cui i giri di campo contano più della chimica”.

Pagò per la sua guerra al doping? Dopo Foggia, ebbe un’altra stagione felice, a Pescara, 2011-12. Conquistò la serie A a suon di gol (90) con Lorenzo Insigne, Ciro Immobile e Marco Verratti. Poi, si perse nel fumo delle sue mille sigarette. Sognò un calcio diverso, denunciò il ricorso in farmacia di troppi campioni gonfiati, subì più querele che sconfitte, ispirò due romanzi e una canzone che diceva: “La folla sta impazzendo ormai / all’attacco vai … in difesa mai … / tu non ti fermerai. / Perché non cambi mai”. E mai cambiò. Odiò i pareggi e preferì le belle sconfitte alle brutte vittorie. Negli ultimi tempi annotò: “Diversi calciatori sono risultati positivi al nandrolone, oggi no. Hanno cambiato shampoo, sono finiti i cinghiali”.

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