La guida della nazionale dal 1966 al 1974 gli diede notorietà, vittorie, tonfi e supplizi. Per tutti fu zio Uccio.
Apoteosi, disdori, staffetta e vergogna del triestino alto e grosso, timido, religioso, lentiggini e capelli rossicci da giovane, Ferruccio Valcareggi, mezz’ala di fatica ai suoi tempi di calciatore (Fiorentina, Milan, Bologna). La guida della nazionale dal 1966 al 1974 gli diede notorietà, vittorie, tonfi e supplizi. Per tutti fu zio Uccio.
Vinse un campionato europeo, fortunato a Napoli. Semifinale con l’Urss al San Paolo inchiodata sullo 0-0. L’arbitro tedesco con nove consonanti e due vocali, Tschenscher, disse: “Necessario scuotere monetina”. Zio Uccio, che portava sempre a pelle la medaglietta della Madonna di Pompei (gliela aveva regalata la padrona di una trattoria fiorentina), quel giorno si affidò anche a san Gennaro. Il sorteggio avvenne nel ventre del San Paolo. Leggenda vuole che la monetina avesse due facce uguali, una delle quali fu scelta da Valcareggi. Monetina e san Gennaro dissero di sì e l’Italia andò a vincere a Roma la finale contro la Jugoslavia.
La rosa dell’Europeo sfiorì e zio Uccio passò a due dolorose spine.
Il sole infuocato era allo zenit nel cielo dell’Estadio Azteca. Era mezzogiorno a Città del Messico quel 21 giugno 1970, finale mondiale contro il Brasile di Pelè. Avevamo ancora i fremiti addosso per la semifinale vinta 4-3 sulla Germania ai supplementari nella “partita del secolo” e, appena quattro giorni dopo, stavamo gemendo sotto i colpi brasiliani di Pelè, Gerson e Jairzinho.
Alle 13,39 ora messicana, zio Uccio si rivolse a Rivera che era in panchina e gli disse: “Alzati e vai”. Mancavano sei minuti alla fine del match. E Rivera, che aveva segnato il gol decisivo ai tedeschi, entrò in campo salutando distrattamente Boninsegna che uscì per fargli posto.
In quel momento, zio Uccio Valcareggi immortalò al mondo il definitivo disdoro della staffetta. Sostituzione incomprensibile. Di solito c’era la sostituzione alternata fra Rivera e Mazzola per le pressioni contrapposte di dirigenti federali e stampa che parteggiavano per l’uno o per l’altro.
Quel giorno della finale a Città del Messico, Mazzola (che aveva giocato i primi 45 minuti) nell’intervallo si stava togliendo gli scarpini sicuro di dover fare posto a Rivera. Continuò invece a giocare, Rivera rimase in panchina.
Il golden-boy milanista giocò la più breve partita della sua vita di sei minuti esatti. Non fece niente perché non c’era più niente da fare (il Brasile segnò il quarto gol). La staffetta fu la maledetta invenzione di zio Uccio, imposta a zio Uccio, confuso dalle pressioni esterne, e la ripeté in seguito ricavandone dolore, lazzi e irriconoscenze varie.
Nell’anno 1974, un’ora avanti che sopraggiungesse la sera a Monaco di Baviera, zio Uccio sguinzagliò la nazionale italiana contro gli antillani di Haiti, campionato del mondo in Germania. E zio Uccio disse al piccolo siciliano Pietruzzo Anastasi: “Scaldati”. E Anastasi si scaldò. E zio Uccio disse: “Vai”. E fece la seconda staffetta più famosa della sua vita di inventore di staffette. Zio Uccio mandò in campo Pietruzzo Anastasi e dal campo richiamò Giorgione Chinaglia.
Siccome era grande e grosso e aveva vissuto in Inghilterra, Chinaglia veniva chiamato King George. La delusione e l’ira offuscarono la mente di King George che era un finto gigante buono. Egli chinò il capo e si avviò per uscire dal campo. Facendo questo, improvvisamente si girò di corsa verso la panchina dove era seduto zio Uccio. Quando fu davanti a lui, piegò il braccio sinistro e vi appoggiò vigorosamente la mano destra. Soddisfatto del gesto pagano, si allontanò e gli scribi scrissero che Giorgio Chinaglia aveva fatto a zio Uccio il gesto dell’ombrello. E a Monaco di Baviera neanche pioveva.
Zio Uccio molto giocò, allenò e vinse. Ma la sua leggenda resta legata alla monetina di Napoli, alla partita più breve di Rivera e al braccio pagano di Chinaglia. Poiché mai negò la prima circostanza fortunata, mai discusse la seconda vicenda e sempre sorvolò sul terzo accadimento, il popolo lo ammirò.