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Scopigno e Boskov, quando gli allenatori rendevano allegro il calcio

«Il calcio di oggi assomiglia all’ufficio del catasto» disse l’uomo che vinse a Cagliari. «Un brocco è un brocco anche a zona», firmato Vujadin

Scopigno e Boskov, quando gli allenatori rendevano allegro il calcio

E nel settimo giorno Iddio non si riposò ma fece per suo diletto gli allenatori dopo avere fatto la Terra a forma di palla. Fece i metodisti e i sistemisti, i tacalabala, i maghi e gli antimaghi, i ginnasiarchi, i petissi, i filosofi, i romboprofeti, i sergenti di ferro, gli arrighisacchi, i calciochampagne, gli esonerati e i subentranti.

E fece Manlio Scopigno, e lo fece nascere a Tarvisio in provincia di Udine il 20 novembre 1925 sotto il segno del Sagittario, e gli dette da fumare e da viaggiare, e Manlio Scopigno fumò e viaggiò in Russia, in Ungheria e in Inghilterra, e attraversò l’oceano, e giunse in Brasile, e là studiò e apprese il gioco del calcio come aveva fatto nella Vecchia Europa.

Quando tornò dai suoi viaggi, Manlio Scopigno disse: “Io sono Manlio Scopigno, compro tutti i libri che si stampano, colleziono quadri e francobolli del Papa, e ascolto la musica dei Beatles, e fumo settanta sigarette al giorno”.

E il Signore lo fece alto e magro, e gli dette capelli corti e brizzolati, lo sguardo stanco dei Sagittari che amano agire in modo rilassante, e gli fornì tra le dita un perenne cilindro di carta riempito di tabacco. Era nato nelle terre friulane, ma somigliava in tutto e per tutto a un antico romano. Delle origini conservò la modestia e i lunghi silenzi, delle sembianze romane ebbe una visibile indolenza. E l’uomo fu grato al Signore e frequentò l’università nella città di Napoli, e fece cinque esami di filosofia, ed ebbe dei napoletani una stanca e appassionata filosofia della vita. E disse: “Mi sveglio tardi al mattino e resto a letto sino a mezzogiorno, e intanto sorseggio un tè. Mangio poco, non ho mai appetito, i bei piatti mi piacciono, ma solo da guardare. E poi, al pomeriggio, c’è il pallone”.

Aveva fatto il calciatore da giovane a Rieti e a Salerno, e studiando all’università fece il calciatore nel Napoli, e col Napoli segnò il suo unico gol in serie A contro il Como. Avendo ricevuto tanta grazia dal Signore, il Demonio intervenne e lo colpì ai legamenti del ginocchio destro, e Manlio Scopigno cessò di fare il calciatore. Il Signore fulminò il Demonio e disse: “Vai tu, Manlio, vai ancora nel mondo del pallone”.

E il pallone l’accolse nelle città di Vicenza, Bologna, Cagliari, Roma, e fu a Cagliari che il Signore gli concesse gloria, sigarette e il whisky scozzese, e l’uomo lo beveva di gusto e disse: “Mi piace il whisky scozzese, però lo sorseggio quando il giorno finisce e avanza la notte. Il mondo a quell’ora tace e il bicchiere è un buon compagno”.

E raccontò: “In Russia ho imparato molte cose perché là sono avanti a tutti. Gli ungheresi ma anche i cecoslovacchi non fanno niente di più di quello che facciamo noi, però hanno un’arte sopraffina nel gioco del pallone. I brasiliani hanno la stessa arte vellutata nel giocare la palla, però più rapida dei danubiani, e con una struttura fisica meno indolente, molto ben preparata, e hanno adottato le prime furbizie tattiche”.

Così istruito, vinse lo scudetto a Cagliari e disse: “È stato come vincerlo sulla luna”. E molti gli chiesero di Gigi Riva e lui disse: “Io parlavo pianissimo, lui era sempre imbronciato. Ne venivano fuori colloqui stupendi”.

Andando avanti negli anni, si ritirò a Roma e disse: “Io nel calcio mi sono divertito. Se le cose sono cambiate, sono cambiate in peggio. Il calcio di oggi assomiglia all’ufficio del catasto”. Sorseggiò il whisky scozzese e aggiunse: “Felicità non è vincere, ma sperare di vincere”. Si ritirò a Rieti e concluse la sua vita.

Il Signore si rallegrò d’avere fatto Manlio Scopigno e volle fare di più, e allora fece Vujadin Boskov, e lo fece nascere a Begec, un paese serbo di poche anime, ed era l’anno 1931, il giorno 9 e il mese di maggio. E Vujadin Boskov ebbe il faccione furbo e gli occhi spiritosi, e venne in Italia, e si fermò ad Ascoli, e soggiornò a Genova sulla riva doriana e vi stette sei anni, e apparve a Roma e a Napoli, e quando fu a Perugia aveva 69 anni e smise perché, dopo 37 anni sulle panchine di tredici squadre, non ebbe più una frase spiritosa per i contemporanei e per i posteri.

Raccontava storie in una lingua tutta sua col faccione di slavo e la buona propensione per il vino, e attraversò felice il mondo del calcio e fece felici quelli che lo ascoltavano, e fu chiaro che “rigore è quando arbitro fischia”, e disse: “Se metto in fila tutte le panchine che ho occupato potrei camminare chilometri senza toccare terra”.

E fece il suo mestiere di allenatore con grande sapienza e leggerezza, e disse: “Gli allenatori sono come le minigonne. Un anno le metti, l’anno dopo le butti nell’armadio”. E incoraggiò le sue squadre con una frase ineccepibile: “Noi siamo noi e loro sono loro”.

E a Genova vinse lo scudetto con una banda di talenti che gli facevano la formazione, e disse: “La formazione la faccio io, ma è stupido rifiutare per principio un’idea di Vialli o di Vierchowod”. E concluse: “Allenatori perdono, giocatori vincono”.

E il Signore gli dette anche un’anima da poeta, e lui disse: “Gullit è come cervo che esce da foresta”. E aveva un mezzo sorriso con cui irrideva alla vita, agli interlocutori, al pallone e a se stesso. E disse: “Quando Dio vuole, pallone non entra in rete”. E il Signore annuì. E infine Vujadin Boskov di Novi Sad disse: “La zona non fa spettacolo, spettacolo fanno i grandi giocatori. Brocco è brocco anche a zona”.

E Vujadin Boskov finì i suoi giorni guardando il Danubio nel paese di Novi Sad, dove il Danubio scorre, e aveva 83 anni quando la sua vita finì, e da molto tempo nel calcio era finito il divertimento.

(11 – continua)

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