Al Foglio Sportivo: “E’ un’azienda che sa camminare perché è formata da persone competenti. Si dice: il giocatore deve pensare al noi e non all’io. Lo trovo ipocrita. Non c’è un giocatore al mondo che pensa al noi e poi all’io”
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Sul Foglio Sportivo un’intervista a Roberto De Zerbi, allenatore del Sassuolo.
“Senza calcio sono vuoto. Non perché non abbia altri interessi, ma nei giorni come questa sosta ho un picco all’ingiù, mi manca l’adrenalina della partita, lo stress. Cos’è per me il calcio l’ho capito al volo. Sono nato a cinque metri dall’oratorio di Mompiano, a cento dallo stadio Rigamonti, metà della mia infanzia è il gioco e l’altra metà è il Brescia. Metto la professionalità del calciatore e la passione del tifoso, per questo le mie squadre hanno il mio carattere. È più facile da trasmettere perché sei tu. Il calcio è un modo di esprimere me stesso”.
Il Sassuolo non è un miracolo, dice.
“Questa è un’azienda che sa camminare perché è formata da persone competenti, non è un miracolo. È la continuazione del progetto di Squinzi, a cui noi cerchiamo di rendere onore. Che il calcio possa essere paragonato a un’azienda è giusto, muove soldi. Ma negli ultimi anni si è scelta la direzione economica a discapito di quella sentimentale. E la gente si sta distaccando dal pallone”.
Sulla classifica:
“La sto guardando, sì. Ma la classifica va guardata con ambizione e non come responsabilità. Potevamo avere qualche punto in più. Però dobbiamo anche pensare da dove siamo partiti tre anni fa. Stare in basso è più difficile”.
De Zerbi parla della moderna generazione di calciatori.
“Quella di oggi credo sia una generazione con meno personalità, probabilmente anche i social riescono a tenere nascosto il coraggio, non fanno spiccare un’identità. Il rispetto oggi te lo devi conquistare, altrimenti vieni calpestato”.
Parla della sua vita da calciatore, degli allenatori avuti in carriera.
“su quindici che ho avuto con dodici ho litigato. Uno? Non ve lo dico, ci fate il titolo. Qualche volta si sbaglia, e anche l’allenatore può chiedere scusa. Essere poco coerente, ambiguo, egoista: queste erano cose che odiavo. Cerco sempre di non essere così, cerco di ricordarmelo. Meglio dire una cosa brutta, piuttosto che trascinare avanti le cose”.
Sul suo rapporto con i calciatori:
“Ho un ordine mentale, ma non sono schematico. Coi giocatori sono esigente e molto duro, pesante. Certe volte, quando finisce l’allenamento, mi pento di come ho attaccato qualcuno. E quindi provo a stare vicino a tutti, a essere presente, attento a quello che può servire per la vita calcistica ma anche per quella fuori. Si dice: il giocatore deve pensare al noi e non all’io. Lo trovo ipocrita, non credo ci sia un giocatore al mondo che pensa al noi e poi all’io. Uno di trent’anni non può avere gli stessi obiettivi di uno di venti. L’importante è pensare all’io nella maniera giusta. L’obiettivo di una squadra è l’unione di tanti obiettivi personali”.