Alla Gazzetta: «Quest’anno sarà difficile per la Juve vincere lo scudetto. Mi sarebbe piaciuto giocare in questa Atalanta. Il cancro? Ho sempre pensato che è meglio tenerselo amico. Adesso cercherò di farlo stancare»
Sulla Gazzetta dello Sport una lunga intervista a Gianluca Vialli. Tra ricordi, esperienza della malattia e progetti per il futuro.
Ricorda il primo pallone della sua vita, di plastica, arancione. E prova a immaginare cosa direbbe ad un bambino per spiegargli cos’è il calcio.
«Che è gioia, ti permetterà di crescere, di migliorare, di imparare a stare in un gruppo, il rispetto delle regole, a rialzarti quando hai una battuta d’arresto e a cercare di superare sempre i tuoi limiti. E poi di non arrendersi se qualcuno ti dice che non hai talento. Il talento può essere la fine di un percorso, non necessariamente l’inizio. Bisogna sempre imparare. Bisogna avere doti che non hanno a che fare col talento: la determinazione, il rigore, l’abnegazione, l’energia, l’etica, la serietà, la puntualità… Il talento può essere un dono, ma anche una conquista».
Parla della sua malattia, il tumore.
«Non l’ho mai considerata una battaglia, perché ho sempre pensato che il cancro è meglio tenerselo amico. L’ho sempre considerato un compagno di viaggio che avrei evitato. Adesso cercherò di farlo stancare, in modo che poi mi lasci proseguire. Comunque sì, questo modo di intendere la vita mi è servito molto, perché se fai il calciatore impari la disciplina e quindi accetti certe cose che devono essere fatte durante la malattia, impari a non lamentarti. La vita è per il dieci per cento quello che ti accade e per il novanta quello che tu produci con intelligenza, passione, capacità di reazione».
Confessa di essere in disaccordo con Boskov che diceva: «Uomini non piangono quando perdono partita». Racconta di aver pianto dopo la finale di Champions a Wembley contro il Barcellona, quando Koeman segnò a pochissimo dalla fine.
«Sapevo che sarebbe stata la mia ultima partita in blucerchiato e quindi c’era, dal punto di vista emozionale, un doppio carico. Anche Roberto era molto deluso e nello spogliatoio, quando tutti se n’erano andati, abbiamo cominciato a piangere. Boskov entrò e ci disse: “Uomini non piangono, quando perdono partita”. Ma io non ci ho mai trovato niente di cui vergognarsi. È giusto e l’ho imparato anche in quest’ultimo periodo. Me lo dice sempre mia moglie: se hai qualcosa dentro, devi farlo venire fuori. Se devi piangere fallo, piangi, emozionati. Sono sempre stato d’accordo con Boskov, ma non in questo
caso».
Dice che gli piacerebbe, un giorno, fare il presidente di club.
«Un giorno mi piacerebbe, dopo aver imparato, fare il presidente di una squadra. Farei un sacco di cavolate, però ho anche tante idee e tante cose che vorrei provare a cambiare, per rendere il calcio uno sport migliore. Vorrei che le società di calcio fossero più sostenibili dal punto di vista economico-finanziario, che non fossero sempre sull’orlo del precipizio, che ci fosse più fair play, che le società facessero più per la comunità, che il tifoso non fosse soltanto un cliente ma anche un partner veramente coinvolto nella vita della società. Vorrei creare un ambiente di lavoro in cui ci siano tanti valori e creare una cultura giusta per crescere come uomini e come giocatori. Sono idee un po’ da sognatore, da idealista. Ma so che nello sport bisogna vincere. Se vinci le partite guadagni più soldi, hai più sponsor e se guadagni più soldi puoi investirli nella tua idea di società. È una sfida che mi interessa»
Vialli parla anche dello scudetto.
«Credo che quest’anno sia difficile per la Juve. Ma questo al di là del cambiamento di allenatore. È quasi fisiologico, dopo nove anni, che gli altri abbiano trovato le contromisure e che tu possa sentirti un po’ appagato. Anche se il senso di appagamento alla Juve, io ne so qualcosa, non esiste, non è previsto. Alla Juve devi allenarti come se non avessi mai vinto una partita e devi giocare come se non ne avessi mai persa una. Però le altre adesso credo siano pronte a competere. Non so chi lo vincerà, ma credo che quest’anno le altre, oltre ad essersi rafforzate, forse sentiranno meno di prima che il campionato è scontato lo vinca la Juve. Sarà più aperto».
Dell’Atalanta dice che gli piace molto.
«Da morire, è una squadra nella quale avrei voluto giocare perché il gioco di Gasperini per un attaccante è l’ideale. Ti coinvolge, fai un sacco di gol, fatichi e ti diverti. I bergamaschi giocano con quello spirito che mi piace: avventuroso, coraggioso. C’è altruismo, giocano con continuità e da squadra. Che poi sono i valori che cerchiamo in Nazionale. Non vogliamo teste di cavolo, vogliamo giocatori altruisti, coraggiosi, che abbiano fame e garantiscano continuità. Io queste cose le vedo nell’Atalanta. La società sa di quali giocatori ha bisogno, quando li va a comprare non sbaglia, dal settore giovanile escono dei talenti fantastici che poi magari valorizza, vende, reinveste. È un modello che molte società farebbero bene a seguire».
Gli viene chiesto se di fronte alla malattia si è più egoisti e più altruisti. Risponde:
«Egoista nel senso buono della parola, altruista perché ti metti anche nei panni di chi ti vuole bene, di chi, nel vederti in difficoltà, soffre. Però in questa fase della mia vita mi sforzo di essere positivo. In verità me la faccio anche addosso tantissimo e ho dei momenti difficili da gestire dal punto di vista emotivo, però vedo questa fase anche come un’opportunità. Se è arrivata è perché avevo bisogno di viverla e di imparare qualcosa e quindi di continuare il mio percorso di crescita umana. È quello che sto facendo. Con fatica e ottimismo».