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Più che privilegiati, i calciatori sono gli animali da circo del nostro tempo

Sono i nostri attuali circenses. Li consideriamo privilegiati ma se il virus è cosi grave come pensiamo, in cosa consisterebbe il loro privilegio?

Più che privilegiati, i calciatori sono gli animali da circo del nostro tempo
Napoli's belgian striker Dries Mertens celebrates after scoring a penalty during the UEFA Champions League Group E football match SSC Napoli vs KRC Genk. (Carlo Hermann)

Human Toys. Antropologia (apologia) del calciatore

Sulla scorta di quanto emerso negli ultimi giorni in materia di gestione dell’attuale emergenza sanitaria, con particolare riferimento alla partita fantasma Juventus-Napoli, vorrei svolgere alcune considerazioni che intendono porre in questione dei presunti punti fermi del dibattito. Anzitutto il suo assunto di fondo, quello universalmente condiviso, ovvero che ancora una volta, persino in regime di pandemia, il mondo del calcio si confermi letteralmente un microcosmo, una enclave immunizzata (vaccinata) da tutto quanto vige – più o meno – nel “mondo normale”. All’interno di un tale microcosmo l’eccezione diventa sistematicamente la regola. Più precisamente, si tratterebbe dell’eccezione nella forma del privilegio. Proprio su questo ultimo punto (l’equazione tra eccezione e privilegio) e in riferimento specifico alla vicenda pandemica, vorrei sollevare qualche dubbio.

A mio parere l’idea che la quarantena amputata spettante ai calciatori rappresenti un privilegio, a fronte di quella integrale e punitiva che tocca ai noi comuni mortali (si veda, in proposito, la testimonianza pubblicata su “il napolista”), muove da una premessa problematica, favorita dall’inerzia del senso comune. Quella di considerare i calciatori dei “privilegiati a prescindere”. La problematicità di questa premessa sta nell’implicita, forse inconsapevole, convinzione che le norme anti-covid contengano un elemento di sproporzione, un surplus di cautela. In altri termini, che esse sopravvalutino l’effettiva gravità della pandemia. Ciò posto, a noi “mondani” tocca subire per intero queste profilassi esagerate, laddove a pochi altri – i privilegiati, i “divini” – tali eccessi vengono risparmiati. Sicché costoro possono continuare a vivere come se nulla fosse. Come se il virus non ci fosse.

Ora, delle due l’una. O quelle regole sono davvero un po’ esagerate, e allora la quarantena amputata dei calciatori rappresenta effettivamente un privilegio (l’ennesimo della loro vita dorata), oppure le regole di profilassi sono congrue alla gravità della minaccia del virus e allora quello dei calciatori non rappresenta un privilegio ma, sorprendentemente, il suo contrario. Resta vero, cioè, che il mondo del calcio incarna un’anomalia, uno stato di eccezione permanente, ma di segno invertito. Incredibile a dirsi, qui non si tratta di un privilegio bensì di uno svantaggio, di una penalizzazione. Di un handicap. I presunti privilegiati sarebbero in realtà dei discriminati; danneggiati in quanto non abbastanza protetti, non tutelati fino in fondo dai rischi del contagio. Privati di quella tutela integrale che spetta invece ai comuni cittadini. Ecco servito il paradosso.

Viene da chiedersi da dove scaturisca un simile cortocircuito, come sia possibile che i ricchi e famosi per antonomasia – i soli eroi rimasti in servizio in questi tempi così avari di modelli – possano ritrovarsi in una posizione di totale svantaggio. Addirittura, nella condizione poco invidiabile di discriminati. Come è possibile che i divini possano improvvisamente trasformarsi nei più mondani tra i mondani? Proprio l’assoluta singolarità di questa circostanza induce a qualche riflessione di carattere più generale. A mio avviso, questo equivoco pandemico consente di evidenziare un più radicale equivoco di ordine antropologico, per così dire. Tradotto in forma di domanda, l’equivoco suonerebbe più o meno così: posto che i calciatori sono i nostri idoli, lo sono nella forma di eroi? Personalmente credo di no e proverò a spiegarlo qui di seguito.

Probabilmente, più ancora che un’industria, il mondo del calcio è un teatro o un circo. O meglio è entrambe le cose: un’industria dell’intrattenimento. Ne segue che i suoi interpreti sono prima di tutto entertainers: teatranti, circensi, giullari. I nostri odierni giullari. I nostri attuali circenses. È fin troppo nota la strategia politica senza tempo del panem et circenses, tanto più efficace in presenza di tempi difficili. Aggiornata alla nostra attualità, la ricetta suonerebbe: “recovery fund (panem) e calcio (circenses)”.

Ebbene, come tutti i giullari anche i nostri giullari hanno quale unico dovere tassativo, quale unico imperativo quello di farci divertire. Servono a questo, esistono per questo. I calciatori devono giocare, a ogni costo e in ogni circostanza (nel migliore dei mondi possibili, anche ogni giorno), perché devono farci distrarre, lasciarci “evadere”. Essi devono tutelare il nostro inalienabile diritto allo svago. A tale osservazione si obietterà che, al netto di tutti i loro sacrifici (veri o presunti), i calciatori sono pagati profumatamente e che lo sono anche per assumersi certi rischi. E con ciò incappiamo in un altro punto sensibile della questione, che non approfondirò in queste pagine ma che merita almeno una menzione. In quella obiezione viene espressa, come fosse una verità acclarata o un dato incontrovertibile, la convinzione che tutto abbia un prezzo. Che sia possibile comprare e vendere qualsiasi cosa. Compresa salute e dignità delle persone. In questo senso i calciatori rappresentano ancora una volta un caso paradigmatico: quello di chi vende esplicitamente, per contratto, anche la propria salute e dignità. Voglio dire, che nel caso dei calciatori la vendita di tali “beni”, cioè una simile gestione del capitale umano (come fosse davvero e soltanto un capitale), non è il risultato di qualche stortura del sistema, di qualche suo danno collaterale, bensì il risultato del tutto conseguente di premesse inequivocabili. L’esatta traduzione di intenzioni quanto mai chiare.

Di fatto i calciatori, in quanto circensens del nostro tempo, vendono a un prezzo (invero salatissimo) nientemeno che se stessi in quanto tali. Più che il loro talento, ciò che la società paga così profumatamente è proprio la loro umanità. Li ricompensiamo per il fatto di trattarli come giocattoli, come strumenti di svago. Vengono pagati lautamente affinché si lascino trattare come strumenti, affinché ci consentano di considerarli e adoperarli come oggetti. Ossia, come se non fossero esseri umani. Tornando all’esempio concreto da cui sono partito: quella quarantena amputata si giustifica in virtù del fatto di essere applicata a una umanità parimenti amputata. Di paradosso in paradosso, ne segue che nell’esercizio della loro funzione di giullari, i calciatori sono letteralmente dei “non del tutto umani”. Dei sub-umani. I termini del loro contratto sociale prevedono esattamente la loro disumanizzazione. L’oggetto di transazione tra loro e il corpo sociale è niente altro e niente meno che la loro umanità: quella ci vendono, quella acquistiamo.

Provate a pensare, quale involontaria ma efficace conferma di questa tesi provocatoria, all’immagine standard del calciatore fuori dal campo. Ad esempio, al modo in cui i calciatori vengono utilizzati negli spot pubblicitari. Quelle cornici, che dovrebbero celebrare la grandezza dei nostri idoli, finiscono quasi sempre per diventare una involontaria (e per questo tanto più efficace) apoteosi della loro inettitudine. Della loro sub-umanità. Da simili contesti emerge, in maniera subliminale, ciò che davvero pensiamo di loro, ciò che essi ci autorizzano – dietro lauto pagamento – a pensare di loro. Una bambina è in difficoltà? Il mondo è in pericolo? Cosa fa il nostro “eroe” calciatore? Prende: una palla, una carta di credito, lo stesso globo terraqueo… lo stoppa, palleggia e tira! La bambina ritrova il sorriso, il mondo è salvo. In quelle rappresentazioni involontariamente grottesche si cela una sorta di lapsus collettivo. Esse dicono, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a giudizio dell’intero consesso sociale – agli stessi occhi di coloro che lo idolatrano – il calciatore è colui il quale non è capace di fare nient’altro che tirare calci a un pallone. O meglio, che egli non solo non sarebbe in grado di fare altro, ma che neppure lo desidera.

La violenza di questa stereotipizzazione è tale da prevedere, da pretendere, persino che il nostro giullare non voglia essere altro che il giullare che è. Che non abbia mai sognato altro che trasformarsi in un gadget universale. In questo caso la sostanza (umana) è interamente risucchiata dalla funzione (professionale). Ovviamente non è così, non è così che stanno le cose nella realtà, eppure noi desideriamo, anzi esigiamo – in quanto legittimi beneficiari di un diritto (quello allo svago) – che la realtà somigli davvero a quella sua rappresentazione farsesca e per molti aspetti inquietante. In fin dei conti, a chi piacerebbe scoprire che la bambola o il pezzo di lego che ha usato e abusato per il proprio esclusivo sollazzo possiede un’anima? Che è una persona? Ci rovinerebbe il divertimento. Meglio che resti l’oggetto che è, in tal modo potremo disporne a nostro piacimento, senza doverci preoccupare anche di lui.

Spot pubblicitari a parte, mi permetto di consigliare ai lettori la visione del film Diamantino. Il calciatore più forte del mondo (Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt, 2018). Il quale non è soltanto una acuta, salutare e divertente decostruzione del mito di Cristiano Ronaldo (l’idolo calcistico par excellence), ma a partire da quel caso di scuola una riflessione più generale sulla figura del calciatore in quanto “idolo paradigmatico del nostro tempo”.

Per rispondere alla domanda precedente, direi che i calciatori sono senz’altro i nostri idoli, ma non sono i nostri eroi. Al di là delle apparenze abbacinanti, essi non sono modelli ma gadgets, passatempi. Sono idoli sì, ma in quanto giullari, circenses. E in quanto “circenses non umani (sub-umani)”, i calciatori sono letteralmente animali da circo. Degli human toys.

Per strano o molto strano che possa sembrare, confesso di restare sempre assai sorpreso dal fatto che, in tutto questo, la parte lesa non abbia mai nulla da ridire, mai nulla da obiettare. Che quegli animali da circo, che animali da circo non sono, non si rendano conto che, per quanto dorata (o platinata, diamantata…), una gabbia resta una gabbia. Non riesco mai del tutto a capacitarmi di come, seppure in nome di un “bene superiore” e di un “valore più alto” quale è quello di un’altra Ferrari o di un’altra Lamborghini, il calciatore non batta mai ciglio, anzi risponda persino “grazie”, al cospetto di chi, a ogni nuovo giro di giostra, viene a chiedergli un altro pezzettino della sua umanità.

Giullari di tutto il mondo… unitevi! Sarebbe pure ora.

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