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Dalla Primavera dell’Inter al tentato suicidio, la storia del giovane Bengtsson è un film

“Tigers” è alla Mostra del cinema di Roma: a 17 anni era il più forte prospetto svedese, e incantava all’Inter. Poi l’infortunio e il tunnel della depressione

Dalla Primavera dell’Inter al tentato suicidio, la storia del giovane Bengtsson è un film

Martin Bengtsson se lo ricorda – forse – qualche tifoso dell’Inter particolarmente attento. E nessun altro. Ma la sua è una storia laterale al calcio che è diventata un film presentato alla Mostra del cinema di Roma: da giovane promessa dello sport al tentativo di suicidio, passando per la depressione, un male che può colpire chiunque. Anche chi è giovane e forte, e si ritrova a 17 anni all’Inter con il mondo a portata di mano.

Martin Bengtsson arrivò a Milano a 17 anni nel 2004 come migliore promessa del calcio svedese, racconta Repubblica. Un infortunio, la depressione, il tentato suicidio, la ricostruzione della propria vita lontana dal calcio. Ora fa lo sceneggiatore, e ha scritto un libro autobiografico – “In the shadow of San Siro” – da cui è tratto il film “Tigers”.

“Quando avevo nove anni in Svezia venivano trasmesse le partite di Serie A. Ero estasiato dal gioco e dallo spirito sugli spalti. Marco van Basten, alla sua ultima stagione con il Milan, divenne il mio idolo”.

“Inventai un programma di esercizi tutto mio. Mi convinsi di dover fare 5 o 6 ore di allenamenti ogni giorno, per  diventare bravo come van Basten. Dipinsi di arancione il mio pallone, per vederlo sulla neve. Nessun inverno si sarebbe potuto mettere fra me e il mio sogno di giocare a San Siro”.

Un’infanzia da “malato di pallone”, come quella di tanti altri bambini. Poi l’occasione: Milano, ma sponda Inter.

“Avevo diciassette anni, fui chiamato a Milano per una prova di due settimane. Fui accolto bene, mi piaceva come si giocava: palla a terra, rapidità, tattica, disciplina. Con la Primavera incontrammo la prima squadra di Emre, Cambiasso, Materazzi. Rimasi stupito di come riuscivo a tenere il loro passo. Quando mi comunicarono che mi avrebbero preso, fui pervaso da una gioia totale. L’Inter divenne la mia squadra, realizzai che i miei sogni d’infanzia erano dipinti con i colori sbagliati. Tornato in Svezia, scesi nel seminterrato di casa e grattai via dai muri tutti gli adesivi del Milan”.

Ma la depressione era già lì:

“Acquistai la Fiat Punto da un compagno. Non avevo la patente, ma mi esercitai a guidare, come succede nel film. L’auto divenne il rifugio in cui chiudermi quando stavo male. E non credo di essere l’unico atleta ad averlo fatto. Penso che i vetri oscurati dei suv possano essere per i calciatori una barriera dietro cui piangere in pace“.

“Vincere o morire è stato il modo in cui vedevo le cose fin da bambino, ed è probabilmente il sentimento di molti giovani calciatori”.

Oggi il tema è più visibile, io e altri ragazzi abbiamo raccontato in pubblico i nostri problemi di salute mentale, ma abbiamo solo raschiato la superficie. Quando ho presentato il mio libro a giovani calciatori, alcuni mi hanno confidato di avere disturbi di cui non volevano parlare.

Oggi vive a Stoccolma, fa sceneggiatore per teatro e la tv, ed è tornato a Milano “un paio di volte”.

“È stata un’esperienza curativa. Massimo Moratti mi ha invitato a pranzo. Il suo riconoscimento di ciò che è accaduto e il suo sostegno al film, nonché il suo impegno per superare i problemi di salute mentale nel calcio, sono commoventi”.

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