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La strada che deve percorrere Gattuso per diventare un allenatore simbolo del Napoli

Ha tutti gli ingredienti per riuscirci ma deve lavorare sui quattro fattori, due di campo e due narrativi, che lo tengono lontano dallo status di idolo

La strada che deve percorrere Gattuso per diventare un allenatore simbolo del Napoli

Gennaro Gattuso ha tutto per diventare un allenatore simbolo di Napoli. È meridionale, è sanguigno, è gagliardo. Sin dal principio della sua avventura in azzurro, tifosi e giornalisti hanno cercato di imbastire un’epica sulla sua figura. Ma fin qui è stata un’epica minore, su temi stiracchiati, superficiali, poco efficaci. Il frustino, il sudore, gli allenamenti duri: la celebrazione della garra del calabrese è partita come reazione alla tranquillità di Ancelotti ed è rimasta a quel livello. Mentre l’esaltazione delle sue origini provinciali è un escamotage per recuperare un fondamentale del personaggio Sarri, l’oscuro bancario emerso dalle brume del Valdarno. Gattuso non è ancora allenatore simbolo del Napoli. Ce la può fare, se vuole, ma deve lavorare sui quattro fattori, due di campo e due narrativi, che lo tengono lontano dallo status di idolo.

Uno: i risultati. Né Walter nel 2009, né Maurizio nel 2015 sarebbero diventati riferimenti della piazza se non avessero costellato la propria esperienza di risultati di assoluto spessore. Il calcio è pur sempre uno sport: non esistono eroi senza trionfi o affermazioni sul campo. Gattuso ha dalla sua la Coppa Italia, titolo che vale anche quale principale motivo di fiducia nei suoi confronti. Ma il percorso in campionato (intendiamo il 19/20) non è stato esaltante e, se c’è una cosa che il San Paolo non perdona, è la mediocrità.

Due: l’identità della squadra. A tal proposito, al San Paolo non basta vincere: vuole farlo spiccando sul panorama italiano. Il bel gioco, retaggio di Sarri, è l’assillo attuale: nel triennio 15-18 eravamo gli epigoni del guardiolismo in Serie A, non accettiamo ora di portare a casa i punti senza fare faville. Questo non vuol dire che sia il tiki taka il passe-partout per il cuore dei napoletani. L’invaghimento per Mazzarri si è basato sul tremendismo. Con Pazienza, Behrami e Yebda c’era poco da pensare allo spettacolo, bastavano l’adrenalina, l’ardimento e la ferocia. Il filo conduttore, nei due casi, è l’eccezionalità: Gattuso deve trovare la sua strada per un Napoli che rappresenti nel calcio la posizione straordinaria e irripetibile che la città avrebbe nel mondo.

Tre: la sete di riscatto e affermazione. Non basta. Napoli chiede di potersi immedesimare nelle ambizioni del mister. Il pubblico ama gli outsider, perché si percepisce come tale, e diffida dei professoroni: l’avversione verso Benitez, prima, e Ancelotti, poi, sta lì a dimostrarlo. I tifosi non vogliono trarre insegnamento dalle esperienze di illustri coloni: vogliono vincere in un’unione mistica con allenatori arrembanti e affamati di grande calcio come loro. Gennaro è un allenatore “giovane”, nel senso che è ancora in via di formazione, ed è umile: nelle sue parole non c’è mai ombra di arroganza. Ma questo non vuol dire che sia modesto. È stato un giocatore di primissimo piano, ha frequentato i livelli più alti del calcio europeo e sa di poterci tornare anche da mister. Ha già allenato il Milan, per quanto un Milan lontano parente di quello che vinceva le Champions con lui in mediana. Gattuso allena in tuta, ma non può essere lo specchio di chi ama i personaggi “senza giacca e cravatta” (inteso alla Nino D’Angelo).

Quattro: il conflitto. È un elemento che da solo non basta. Anzi, rispetto ai primi tre, è accessorio. Alla piazza piace che l’allenatore del Napoli sia anche una sorta di rappresentante sindacale delle sue ambizioni e delle sue frustrazioni: Mazzarri è stato il precursore ed ha creato lo standard affinato da Sarri. L’esperienza insegna che la dialettica antagonista va maneggiata con cura. L’aziendalismo di Ancelotti ha suscitato sin dal primo giorno diffidenza, ma rimane vero che non basta ingaggiare scontri a distanza con De Laurentiis per accreditarsi presso il pubblico. A Benitez, ad esempio, la guerra fredda col presidente non portò alcuna fortuna. Lo spagnolo trasmetteva l’idea di farlo per sé e non per la squadra: lo scontrò passò come di personalità, cioè come un ulteriore segno della sua boria. Gattuso fin qui ha scelto l’understatement. Il dopopartita col Parma è esemplare: a chi lo incalzava sul mercato, il mister dava lezioni di realismo. Certo, neanche Sarri e Mazzarri hanno iniziato le proprie esperienze napoletane agitando il conflitto: ci sono arrivati col tempo e per questo si può prevedere che ci arriverà anche Gattuso. O forse no. Rino ha il portamento del galantuomo del sud, superiore alle liti di poco conto. Anche nella convulsa fase finale dell’esperienza da allenatore rossonero non è arrivato allo scontro pubblico con il fondo Elliot o il CEO Gazidis. Certi toni, magari, non gli appartengono.

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