Il Black Lives Matter non convince lo spirito olimpico: il Cio conferma la regola che vieta manifestazioni o gesti politici
Il Black Lives Matter non convince lo spirito olimpico. Il Comitato Olimpico Internazionale, a scanso di equivoci, ha confermato che agli atleti sarà vietato protestare ai Giochi di Tokyo: non ci si potrà inginocchiare per la questione razziale, anche diversi sport ormai si sono convinti a lasciare libertà di protesta, dopo l’omicidio Floyd.
Ma il Cio no, non deroga. La regola 50 della Carta olimpica stabilisce che “nessun tipo di manifestazione o propaganda politica, religiosa o razziale è consentita in nessun sito, luogo o altra area olimpica”. E non si scappa. Gli atleti che violano la regola sono soggetti a disciplina caso per caso, e il CIO a gennaio ha pubblicato le linee guida per chiarire che le proteste vietate includono anche mettersi in ginocchio.
Persino la Fifa ha preso una posizione, in merito, invocando clemenza alle federazioni nazionali per i calciatori che in Bundesliga avevano testimoniato la loro vicinanza al movimento. Il Cio invece ha ribadito al Telegraph che le linee guida sono ancora in vigore e che non avrebbe speculato su “casi ipotetici 13 mesi prima dei Giochi Olimpici”.
Le proteste degli atleti alle Olimpiadi sono rare. Leggendaria resta quella del 1968, con i velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos sul podio a capo chino e pugno alzato per protestare contro la disuguaglianza razziale. A Rio 2016, il maratoneta etiope Feyisa Lilesa alzò le braccia e incrociò i polsi al traguardo per protestare con la sua tribù Oromo contro piani del governo per riallocare i terreni agricoli.