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Con le proteste per Floyd, è morta (forse) l’omertà dello sport

Il Telegraph: “Gli atleti non sono burattini, lo sport ha un potere che può usare a sostegno della sua retorica sui valori universali”

Con le proteste per Floyd, è morta (forse) l’omertà dello sport

Con George Floyd potrebbe essere – finalmente – morta anche l’omertà dello sport. Quella pretesa extraterritorialità che da sempre pone gli atleti professionisti su un pianeta diverso, dove le cose non accadono, o molto semplicemente non importa che accadano.

“L’ultimo sussulto di un mito” la chiama Paul Hayward nel suo editoriale sul Telegraph: “il cartellino giallo mostrato a Jadon Sancho per aver sollevato la maglietta scoprendo il messaggio “Giustizia per George Floyd” potrebbe essere ricordato come l’ultimo sussulto di un mito. Lo sport non è mai stato indivisibile dalla società”. Un mondo che ancora “prova a dire agli atleti neri che il loro lavoro è quello di correre obbedientemente in campo per il divertimento di una società che consente agli agenti di polizia di andare in giro uccidendo persone per il colore della loro pelle. Persino la Fifa, specialista in slogan e punizioni morbide per condotta razzista, ha rinunciato alla pretesa che il mondo esterno si fermasse ai tornelli”.

L’uccisione di George Floyd a Minneapolis – scrive il Telegraph – non riguarda solo la “politica”, ma i diritti umani, la vita e la morte”. E cambia tutto. Il vecchio sistema di regole non può essere più usato.

Ma non basta “la massa critica di indignazione”, “è necessaria una vigilanza” permanente, perché il rischio che la retorica di questi giorni si consumi e si torni alla solita routine è alto.

Hayward fa l’esempio dell’NFL che molti giocatori accusano di ipocrisia per aver represso più o meno sfacciatamente i giocatori che si inginocchiavano durante l’inno nazionale degli Stati Uniti, mentre ora esprime solidarietà ai giocatori neri. Colin Kaepernick è l’esempio che vale per tutti.

“Ma noi da questa parte dell’Atlantico non possiamo compiacercene. Sancho, Marcus Rashford, Rhian Brewster o Paul Pogba, questi giocatori non denunciano semplicemente la brutalità della polizia in una terra lontana. Se leggi i loro post e le loro dichiarazioni, stanno mettendo in evidenza una mancanza di equità e parità di trattamento nelle loro stesse società“.

Ora però, “ricontrolliamo cosa accade quando la morte di George Floyd non sarà più la notizia principale o un problema su cui la società educata può essere così facilmente d’accordo. Come creare un mondo ne quale il Liverpool non sente più il bisogno di mettersi in ginocchio ad Anfield per una foto di squadra a sostegno di “Black Lives Matter”, per rimuovere le cause profonde della morte di George Floyd. Non c’è spazio qui per la facilità. Ma certo questo processo non inizia mostrando a Sancho un cartellino giallo”.

La risposta dello sport non ha “superato una linea” o “politicizzato” il campo di gioco. Dimostra che gli atleti non sono burattini e che lo sport ha un potere che può effettivamente usare a sostegno della sua retorica sui “valori universali”.

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