Ampia intervista al Guardian: «Le cose possono cambiare, in Italia le regole sono cambiate dopo Koulibaly. Mi è mancato allenare. Preferisco ascoltare che parlare»
Il Guardian intervista Carlo Ancelotti che domani sera gioca il derby contro il Liverpool che, vincendo, potrebbe laurearsi aritmeticamente campione. Come al solito, con Ancelotti si spazia, si parla di calcio e non solo.
L’intervista comincia con l’allenatore che mostra al giornalista una frase: “Allenare sarebbe il mestiere più bello del mondo… se non ci fossero le partite”, e poi ride.
«Con questa pausa, il mio stress è scomparso. Ma non c’è nulla di meglio che allenare. Alleni perché vorresti giocare ma non puoi più. Mi piacerebbe giocarle le partite più che prepararle. Il calcio mi manca. Ma ho 61 anni e se non puoi giocare allora alleni per mantenere viva la passione. Non poter andare al campo ogni giorno durante questa pausa, è stato un incubo per me. Ma ho fatto altre cose».
Racconta di aver curato le sue ginocchia, di aver girato molto in bicicletta e di essere stato ovviamente molto di più con la famiglia. E di aver visto molti documentari.
«Mi piace la storia, ho guardato molto sulla guerra civile spagnola, Cuba, la rivoluzione russa, il fascismo in Italia. Ho cercato di capire, di conoscere il Novecento. Siamo fortunati a vivere in questo periodo. C’è libertà ma rendiamo la vita più complicata, non pensiamo a quelli che ci circondano. Sono cattolico e uno degli insegnamenti chiave è fare agli altri quello che vorresti che fosse fatto a te. Invece pensiamo solo a noi».
Ancelotti racconta al Guardian di aver visto anche il documentario “I am not your negro”. E ha raccontato di aver seguito quel che è accaduto in America.
«C’è un problema molto serio in America. E la polizia fa parte di questo problema. Se ho un problema con qualcosa, la prima cosa che faccio è andare alla polizia: la polizia deve proteggere, questo non è successo. Ha reso il problema ancora più grande e può essere risolto solo se tutti ci rendiamo conto che tutto ciò è molto grave. Non è solo un poliziotto che ha perso la testa, il fenomeno è molto più esteso».
«Il football ha un’importante funzione educativa», dice. Ovviamente il Guardian ricorda la vicenda Koulibaly, la sua espulsione a Milano contro l’Inter.
«Gli dissi che eravamo dalla sua parte, che eravamo con lui: che avremmo combattuto con lui, che non era giusto che avesse quei problemi e che avremmo cercato di cambiare le cose. Chiedemmo tre volte che il gioco fosse fermato. Parlammo con l’assistente dell’arbitro ma non ci ascoltarono. All’epoca, le regole non erano chiare. Poi, però, la stampa ha fatto pressione e le regole sono cambiate. Infatti non è più successo. Se si sfida la gente, metti pressioni, li spingi a pensare, le cose possono cambiare».
Racconta di aver preferito lasciare liberi i calciatori in questo lungo periodo, non ha voluto aggiungere altre pressioni, ha lasciato che fosse lo staff a tenere contatti con loro.
«A volte preferisco ascoltare più che parlare». Il giornalista del Guardian sottolinea come, in un’epoca di allenatori ideologizzati, Ancelotti è diverso.
Un allenatore deve essere vicino ai giocatori, capirli. Hai un’idea di gioco, ma sono loro a giocare. Se il rapporto è buono, capiranno chiaramente quel che vuoi; se non è buono, diventa più difficile. Devi essere in grado di comunicare, essere aperto, flessibile non rigido. Se sei troppo rigido, il giocatore non sarà convinto.
Il calciatore che gli sarebbe piaciuto allenare: «Messi. E in Italia Totti».
Il giornalista gli riferisce dei dubbi dei tifosi dell’Everton. Ancelotti è un allenatore di Hollywood, che ci fa qua? Lui risponde come sa: «Mi piacerebbe essere Robert De Niro» e poi racconta della solidità del progetto Everton. Dell’ottimo rapporto con i tifosi che hanno molto apprezzato la decisione di decurtarsi lo stipendio del 30% in questi mesi.