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Domenghini: «Eravamo poveri, ma davvero. Mio padre diceva sempre no. Quando comprai la Spider, non mi parlò»

Intervista al Corsport: «A Cagliari gli anni più belli. Riva un eroe anche se non la passava mai. Non vado allo stadio da quando l’Inter mi ha cacciato»

Domenghini: «Eravamo poveri, ma davvero. Mio padre diceva sempre no. Quando comprai la Spider, non mi parlò»

Sul Corriere dello Sport una lunga intervista ad Angelo Domenghini. Oggi è il giorno del centenario del Cagliari. A Cagliari arrivò nel 1969, dopo essere stato cinque anni con l’Inter. Rivendica di avere ancora la residenza ad Arzachena.

«Nel 1969, dopo cinque anni di Inter in cui avevano vinto tutto, due scudetti, la Coppa dei Campioni, due Intercontinentali. Ma all’Inter Herrera mi considerava sempre l’ultima ruota del carro. Ha cambiato il modo di allenarsi, l’ha rivoluzionato; ma a me non parlava, mi ha fatto fuori senza dirmi niente».

Quel Cagliari avrebbe dovuto vincere almeno un paio di scudetti, dice. Se avessero giocato all’Amsicora avrebbero vinto ancora, come rivelò già in un’intervista concessa a Libero. Indica gli anni passati al Cagliari come i suoi migliori. Di Riva dice: «Un eroe per la città. (…) Se aveva la palla, non te la dava mai, ma quando la davi a lui era una garanzia». Regala un’altra perla: «È più facile segnare da trenta metri che da due».

Racconta anche il dolore del divorzio dai rossoblù.

«Sarei rimasto a vita, ma era già andato via Scopigno e i rapporti non erano più come prima. Il nuovo allenatore, Edmondo Fabbri, alla prima di campionato a Vicenza mi mandò in panchina e poi a dieci minuti dalla fine  mi mandò in campo. A quel punto non potevo più essere ceduto ad una squadra di A ma solo in B. Loro avevano già combinato col Mantova. Io dissi: ci vado solo alle mie condizioni. E chiesi un sacco di soldi, sapendo che il Mantova non poteva spenderli. Mi lasciarono a casa per un mese, poi mi richiamarono, così chiusi la stagione ma ormai a Cagliari era finita. E andai alla Roma da Scopigno. Era una brava persona diverso da tutti gli altri allenatori. Ci lasciava fare, fu il primo a dire che i ritiri non servivano a niente. E aveva ragione».

Racconta di quando iniziò a giocare a calcio, davanti alla chiesa di Lallio, il suo paese.

«In un campo di sassi. Giocavo scalzo, mica ce li avevo i soldi per le scarpe, ma avevo il fuoco dentro. Sai, vengo da una famiglia povera, eravamo nove fratelli, mio padre a gestire un’osteria, dormivano tutti in due stanze, se non c’era il coniglio c’era il gatto, capito? Qualsiasi cosa dicessi, mio padre rispondeva sempre di no».

A 15 anni il lavoro come tipografo, poi come operaio, nel pomeriggio gli allenamenti a Bergamo, fino a quando un dirigente dell’Atalanta gli chiese di fare solo il calciatore. Con i primi soldi, racconta, comprò una spider a due posti.

«Ai tempi dell’Inter ce l’aveva anche Mazzola. Dalla 500 alla Spider fu un bel salto, mio padre non mi parlò per due mesi, gli sembravano soldi buttati. Non voleva nemmeno vederla, la tenevo nel cortile di un vicino di casa, tra le oche e le galline».

Il suo futuro è finito quando ha smesso di fare l’osservatore per l’Inter, dice.

«Ormai sedici anni fa. Mi hanno mandato via senza spiegazioni, non servivo più. È ancora oggi un dolore grande, lo sa che da quel giorno non sono più entrato in uno stadio per vedere la partita?».

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