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Elia Viviani: «Il ciclismo a porte chiuse non ha senso. Mi alleno con i percorsi virtuali»

Repubblica intervista il ciclista oro olimpico: «Il gruppo è un assembramento. Spero che quando riprenderemo, avverrà senza rischi»

Elia Viviani: «Il ciclismo a porte chiuse non ha senso. Mi alleno con i percorsi virtuali»

Su Repubblica un’intervista al ciclista Elia Viviani. Campione europeo su strada e oro olimpico a Rio 2016.

«Si può anche impazzire, ma non possiamo fare diversamente. I rulli sono una grande invenzione, ma anche una maledizione. Io personalmente non li ho mai amati. Ma devo farmene una ragione. Ho smesso ora di allenarmi, tre ore. Ero sul percorso virtuale dei Giochi di Londra 2012, ho pedalato sulla salita di Box Hill. Con l’app che usiamo, il rullo si indurisce in salita e ci restituisce una sorta di verità in fatto di fatica e allenamento».

Il ciclismo così non è il massimo della vita, dice.

«E poi è comunque uno sforzo diverso. Un professionista può piazzarsi molto lontano da amatori abituati a correre solo così. La fatica è la stessa, ma la gestualità è completamente diversa».

Parla dei contagi tra ciclisti e delle gare a porte chiuse.

«L’UAE Tour a fine febbraio è stato una sorta di focolaio, alcuni corridori sono restati lì per un mese in quarantena, dopo aver contratto il contagio. Ho scambiato molti messaggi con Fernando Gaviria, che è stato anche in ospedale e da poco è riuscito a tornare a casa. Mi ha raccontato cose molto angoscianti. Alla Parigi-Nizza eravamo a porte chiuse, in un’atmosfera surreale. Il ciclismo a porte chiuse non ha senso. Ma spero che quando riprenderemo, tutto venga fatto senza rischi. Un gruppo di corridori è un assembramento, a guardar bene».

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