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Doumbuya racconta all’Equipe la sua quarantena in Cina: «In Francia non hanno capito»

Il calciatore della Guinea. «La Cina è stata radicale ma efficace, ora i bambini giocano in strada. All’aeroporto ho capito la gravità del fenomeno, sembrava un film di fantascienza»

Doumbuya racconta all’Equipe la sua quarantena in Cina: «In Francia non hanno capito»

L’Equipe intervista Lonsana Doumbouya calciatore della Guinea, nato a Nizza, che adesso gioca in Cina e racconta la sua esperienza col coronavirus (che non ha contratto).

Racconta che adesso la vita è tornata a scorrere, «possiamo muoverci, dalla finestra vedo bambini giocare all’aperto. Indosso sempre guanti e mascherine ordinati un mese fa. Con la squadra – il Meizhou Hakka – siamo usciti dalla quarantena il 31 marzo. Il campionato dovrebbe ripartire a maggio».

Racconta i mesi della paura e dell’angoscia.

«A gennaio, quando la situazione è peggiorata, il club ci ha portati in Tahilandia a fare la preparazione. Quando siamo rientrati, perché il governo stava programmando di chiudere le frontiere, ho capito la gravità del fenomeno. L’ho capito dalle misure di sicurezza all’aeroporto di Guangzhou. Non riuscivamo a distinguere i medici dai poliziotti tanto erano bardati. Come nei film di fantascienza. Abbiamo atteso due ore sull’aereo e poi i test nel terminale sono durati quattro ore. Abbiamo compilato dei moduli molto dettagliati sui nostri movimenti, le persone che avevamo incontrato».

«Siamo stati poi trasferiti in un albergo di proprietà del club. Ci hanno comunicato che qualche giocatore era risultato positivo e che quindi saremmo dovuti andare in ospedale per ulteriori controlli e poi fare la nostra quarantena. Ciascuno ha avuto la propria stanza, in completo isolamento. Avevamo una maschera da indossare quando c’era da recuperare il vassoio fuori la porta. L’unica persona che vedevo era il medico».

«La tv era in cinese ma avevo il wi-fi, e anche un tappetino sportivo, una corda per saltare e una palla. Ai miei genitori non ho detto che ero in quarantena, non volevo stressarli. Ma raccomandavo a mia moglie, ai miei figli (vivono a Limoges, ndr), di non uscire. Quando vedo servizi su persone che in Francia camminano tranquillamente, penso che sono incoscienti».

«Ho sentito dire molte cose sulla gestione cinese dell’emergenza. È stato certamente un metodo radicale ma questo virus è feroce. In Cina hanno avuto l’esperienza della Sars, hanno esperienza in tema. E quando ai cittadini viene detto di stare a casa, i cittadini sono ligi. Sui nostri telefoni riceviamo sempre messaggi dalle autorità, sono messaggi di invito alla cautela, di incoraggiamento, di solidarietà sul tema “ci arriveremo insieme”. In Francia, invece, anche l’isolamento è preso alla leggera. È triste, si mette la propria vita in pericolo e non è così che si uscirà da questa situazione».

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