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Sara Simeoni: «Il prof mi disse che cercavano atlete. Provai, allora i genitori non ossessionavano i figli»

Intervista al Corsera: «Non c’erano soldi per le medaglie, una casa sulla Cassia a me non l’hanno mai regalata». Mennea, De Gregori e gli anni di piombo

Sara Simeoni: «Il prof mi disse che cercavano atlete. Provai, allora i genitori non ossessionavano i figli»

Quarant’anni fa, alle Olimpiadi di Mosca, Sara Simeoni vinse la medaglia d’oro nel salto in alto. A causa del boiocottaggio americano, non ci fu l’inno di Mameli a quell’edizione. Simeoni racconta: «Dentro di me cantai Viva l’Italia di Francesco De Gregori». Oggi Gaia Piccardi la intervista sul Corriere della sera.

Si parte dalla foro in cui Sara Simeoni esultante mostra le ascelle non depilate.

Erano anni in cui non si pensava al look, c’erano priorità diverse. Le poche ragazze si allenavano con i maschi e le tute erano uguali per tutti: le taglie sfasate, i pantaloni a palloncino, un orrore… Andavo al campo con ago e filo, improvvisavo improbabili imbastiture. E se non c’era tempo, mi arrangiavo con le spille da balia.

Amava la danza, voleva fare la ballerina ma fu scartata. «Ne fui mortificata»

Fu l’insegnante di educazione fisica delle medie a dirmi che una società stava cercando atlete. Provai. Erano anni in cui nessuno, men che meno i miei genitori, ossessionava i ragazzi con l’idea del risultato a tutti i costi. Figuriamoci le ragazze: lo sport femminile, all’epoca, non esisteva.

Mi allenavo come se timbrassi il cartellino: per me l’atletica era un lavoro serio. Stavo a Formia, il meglio che un azzurro potesse avere a disposizione, e mi impegnavo sodo. Vivevo di borse di studio della Federazione e del Cio. (…)  A me, per dire, un appartamento sulla Cassia non l’ha mai regalato nessuno… Non c’erano premi in denaro per le medaglie, come oggi. Ricordo che Primo Nebiolo, presidente della Federatletica, mi regalò un orologio d’oro.

Mennea

In allenamento era intrattabile. Finito il lavoro, se voleva, sapeva anche essere simpatico. Abbiamo condiviso un percorso, è vero. Dieci lunghi anni tra Formia, trasferte, gare. Non ci siamo mai frequentati fuori dall’atletica, però. Pietro aveva il suo carattere e io ero molto timida, mai la prima a rompere il ghiaccio. Aspettare che lo facesse lui, evidentemente, non è servito. Anche l’allenatore di Pietro, il professor Vittori, era burbero. Mi sentivo sempre un po’ in soggezione davanti a loro, anche se si stava molto insieme. Andare a cena da Vittori, finita la carriera, mi sembrò una conquista: prima di dedicarsi alla velocità, il professore aveva allenato i salti ed era stato il coach di Erminio Azzaro, mio marito».

Gli anni di piombo

Un periodo buissimo. Nel ‘78, nei giorni del rapimento di Aldo Moro, per allenarmi andavo avanti e indietro con Rieti, dove si pensava ci fosse un covo. Ci avevano sconsigliato i treni; la nostra auto veniva sempre fermata ai posti di blocco. Se ci ripenso ho ancora i brividi. I nostri ori furono un segnale di speranza: avevamo tutti voglia di cose nuove e belle.

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